STRAPOTERE M5S
Mentre il Parlamento chiude i battenti per la pausa estiva, i colonnelli grillini si lasciano andare ad una mezza apologia di se stessi, per averci visto giusto nello scegliere l’economia come elemento distintivo della loro presenza al governo. All’inizio erano stati presi per stolti mentre Matteo Salvini giocava la sua partita sull’immigrazione, ma ora tutti si stanno accorgendo che il protagonismo che più colpisce gli italiani, nel bene e nel male, è fatalmente legato ai temi del lavoro, delle infrastrutture, delle pensioni, cioè quelli scelti da Di Maio con il suo super ministero. E, visto che lo strano equilibrio del governo si basa sulle sfere di competenza, appare chiaro il rischio per il vicepremier leghista di essere costretto a rincorrere d’ora in avanti il collega pentastellato. La fotografia di questo limite della strategia del Carroccio è tutta nell’immagine del dibattito parlamentare sul decreto Dignità di qualche giorno fa: Di Maio a dar le carte e i parlamentari leghisti stretti tra la disciplina di maggioranza e le proteste del loro elettorato di riferimento, chiusi in un silenzio assordante. «Alla lunga – osserva il ministro grillino Riccardo Fraccaro, con tono compiaciuto – le questioni importanti sono quelle economiche: anche il governo del “cambiamento” cadrà o starà in piedi su questi temi». «Salvini – gli fa eco Angelo Tofalo, sottosegretario alla Difesa – ha fatto le sue sparate sull’immigrazione, ma alla fine anche quelle si trasformano in un cliché. Ora è arrivato il momento di Di Maio». Discorso simile fa Gianluigi Paragone, sospeso tra un passato leghista e un presente grillino: «Pure l’immigrazione – spiega con l’enfasi del vecchio saggio – si gioca sui temi economici. Il razzismo non c’è in Italia, semmai c’è lo scontro tra quell’italiano che è al penultimo posto della piramide sociale e l’immigrato, che è all’ultimo». Ora, che la condizione di Salvini e dei suoi non sia semplice se ne stanno accorgendo tutti. Anche perché i pentastellati non hanno nessuna voglia di rinunciare alle loro prerogative. Sul decreto Dignità hanno concesso poco e niente ai partner di governo. Sulla Tav Di Maio, Toninelli, Fico e Di Battista marciano uniti verso il «no» («Noi siamo diversi da Salvini» ripete il presidente della Camera). Sul Tap sono più possibilisti, ma è la ministra Barbara Lezzi ad interpretare il ruolo del Gian Burrasca. Sull’Ilva sono tentati dall’idea di rimettere in discussione l’accordo con ArcelorMittal. E, come se non bastasse, perseguono anche la pazza idea di rinazionalizzare Alitalia. Sono argomenti su cui i pentastellati fanno il bello e il cattivo tempo, anche perché, in ossequio alle sfere di competenza «gialle» e «verdi», finiscono tutti sulle scrivanie di Di Maio e Toninelli. Fin qui l’antipasto: ma se queste sono le premesse, ci vuole poco per immaginare cosa avverrà sulla legge di Bilancio, sulle clausole di salvaguardia, sulla flat tax e il reddito di cittadinanza. Anzi, i mercati lo hanno già capito e tutti scommettono che tra agosto e settembre entreranno in fibrillazione: lo spread a 243 sta lì a dimostrarlo. Tant’è che lo sport più in voga tra i leghisti è quello di mettersi l’elmetto. «Prepariamo per tempo un rifugio anti-atomico – ripete da settimane il sottosegretario Giancarlo Giorgetti -, Berlusconi ne sa qualcosa». Mentre Salvini ha cominciato il j’accuse contro i poteri forti che sono sempre in agguato. La domanda, però, è un’altra: nelle condizioni date, la maggioranza gialloverde sarà capace di tenere a bada i mercati, rassicurare la Ue e fare una legge di Bilancio che non deluda i suoi elettori? Molti non lo credono, come pure sono convinti che chi rischia di più sono Salvini e i suoi, radicati nella parte produttiva del Paese, quella più esposta alle intemperie dell’economia. Tanto più che sugli argomenti economici, appunto, i leghisti sono ridotti al ruolo di passeggeri di un autobus che non guidano. «In questo governo – sentenzia Renato Brunetta – il consenso lo tira Salvini sull’immigrazione, ma la leadership politica l’esercita Di Maio». Un concetto che già settimane fa, in un linguaggio più cruento, esprimeva Matteo Renzi: «Questi salteranno prima del previsto e il primo che si sfracellerà sarà Salvini». «Spero che Salvini – osserva Ignazio La Russa, che pure è interprete di un’opposizione benevola – per ora dia spago ai 5stelle solo per riequilibrare il suo protagonismo sull’immigrazione. Se a settembre, però, non rimette la palla al centro sull’economia, è pazzo!». Che debba fare qualcosa il primo a saperlo è proprio Salvini. «Da settembre – rincuora i suoi – partiremo su pensioni e flat tax . E lo faremo con la stessa decisione con cui abbiamo affrontato i temi dell’occupazione». Solo che bisogna vedere quali margini i partner grillini gli concederanno. È sull’ampiezza o meno di questi margini, infatti, che scoppieranno i guai. «Certo non potremo fare tutto ciò che vogliamo noi – avverte Guido De Martini, leghista eletto in Sardegna -, ma in buona parte sì. Altrimenti che stiamo a fare al governo?». Un nervosismo che sulla bocca di Giuseppe Basini, vecchio liberale eletto nelle file della Lega, suscita ricordi. «Nel giro di un anno – è la sua previsione – ripeteremo il 18 aprile del ’48, con la Lega nei panni della Dc e i grillini in quelli del Fronte Popolare». Ma il leader leghista sarà in condizioni di farlo, o rischia di restare intrappolato nella sua stessa invenzione, l’esecutivo gialloverde? In Italia i governi ci mettono poco a trasformarsi in gabbie. Ne sanno qualcosa Pd e Forza Italia, che ne sono state vittime nelle ultime legislature. Segnali non mancano. Il ministro Savona, ad esempio, aveva preparato un suo documento su come riformare la Ue, che aveva allarmato non poco Palazzo Chigi, il Quirinale e Draghi. Due giorni fa lo stesso Conte aveva confidato a un senatore grillino: «I leghisti stanno diventando nervosi, forse perché stanno perdendo colpi». E ieri il premier, in una conferenza stampa improvvisata, ha visto bene di spargere melassa per calmare gli animi: «Non c’è un piano Savona, ma un piano del governo». Siamo al Savona «ingabbiato». Per non parlare delle nomine dove, dopo tanto trattare, la Lega ha strappato ben poco: candidati del Carroccio come Massimo Sarmi, Giuseppe Bonomi, Giovanna Bianchi Clerici per ora sono rimasti a casa; mentre il nome fortissimamente voluto da Salvini per la presidenza della Rai, Marcello Foa, è in mezzo al guado. «La verità – sintetizza il vicepresidente dei deputati azzurri, Roberto Occhiuto – è che Giorgetti non ha preso un tubo, mentre i 5stelle sì». Un segnale recepito subito dagli ambienti che contano. «Anche gli alti papaveri dei ministeri – ammette il sottosegretario Tofalo – hanno capito che non tagliamo teste e ci guardano di buon occhio». Eppure, malgrado il protagonismo a sue spese dei partner di maggioranza, Salvini è costretto a fare buon viso: «Il governo non andrà in crisi», ripete. Motivo? Se si vuole fare saltare un governo, c’è bisogno di una via d’uscita per mettersi in salvo. E finora non c’è. «Ci si è messa anche la magistratura – confida il leghista Paolo Tiramani – con il sequestro dei 49 milioni di euro: è difficile fare prima la campagna per le Europee e, poi, quella delle politiche, senza il becco di un quattrino». Forse un giorno, molto presto, Salvini si chiederà se sia valsa davvero la pena di ficcarsi in un governo sempre più giallo e meno verde.