Bobbio

un convegno ricostruisce il pensiero del filosofo sui legami tra marxismo e democrazia: “un rapporto mai pacifico”
marco revelli
Nella primavera del 1976 Norberto Bobbio pubblica, da Einaudi, un agile volume (lo definirà un «volumetto»), dal titolo interrogante: Quale socialismo? Un testo breve ma in realtà densissimo, di carattere squisitamente politico ovvero destinato a intervenire direttamente non solo nella battaglia delle idee ma anche in quella «per il potere». Il Pci, che aveva stravinto le amministrative l’anno prima, minacciava di diventare, alle elezioni politiche, partito di maggioranza relativa. E comunque si avvicinava impetuosamente all’area di governo. Il vecchio saggio della sinistra italiana diceva loro che non erano preparati. Che non possedevano una «teoria dello Stato». Che il loro socialismo, di esplicita derivazione marxista (e quando Bobbio parla di «socialismo» intende qui esclusivamente quello, come se le diverse varianti socialdemocratiche o riformiste non rientrassero nel tema) era totalmente incentrato sulla questione di «chi governa» – il proletariato o la borghesia – ma trascurava gravemente la questione di «come si governa», che è esattamente ciò che fa la differenza per chi deve essere governato, e per chi deve giudicare il valore di una forma di governo: se l’esercizio del potere «socialista» avrebbe rispettato i diritti di libertà di derivazione liberale riuscendo nel contempo a realizzare i propri obiettivi di trasformazione sociale. O se viceversa avrebbe sacrificato i primi ai secondi – ma anche i secondi ai primi.
Apparentemente era la riproposizione dei temi che Bobbio, vent’anni prima, aveva posto a Togliatti e ai suoi nel serrato dibattito su Politica e cultura (titolo del fortunato libro pubblicato nel 1955). E cioè l’idea che o il socialismo sarà liberale – cioè saprà tutelare insieme alle istanze di eguaglianza degli ultimi (del «quarto stato») anche i principi di libertà di derivazione «borghese» (del terzo stato) -, o non sarà, ovvero si rivelerà una tradizionale dittatura come le altre. Ma in realtà, a ben guardare, il fulcro della riflessione era un altro: non più una questione di «ismi», cioè del rapporto tra liberalismo e socialismo (o comunismo, inteso come la versione egemonica del socialismo in quel tempo storico), con le connesse coniugazioni combinatorie di liberal-socialismo o di socialismo-liberale che avevano a lungo coinvolto lo stesso Bobbio. Ma di pratiche empiriche e di organizzazione del potere. Interrogativi fondati sull’evidenza dei fatti che ci dicono (allora come ora) che «dove c’è democrazia non c’è socialismo» – con buona pace, appunto, dei fautori della social-democrazia – «e dove c’è socialismo non c’è democrazia». Dunque la sfida concretissima di come innestare una qualche variante di socialismo (reale) sul corpo della democrazia (empirica), cioè di una specifica forma di governo, non di una qualche cultura politica o di un assunto ideologico ma di un sistema di regole e di istituzioni.
Ed è qui che quello che a ragione viene considerato uno dei principali pensatori contemporanei della democrazia inserisce la propria mossa del cavallo: spostando il terreno del contendere dalla questione del socialismo a quella della forma democratica. E lo fa partendo dal presupposto che il rapporto tra democrazia e socialismo «non è un rapporto pacifico», esattamente come non lo era stato il rapporto tra democrazia e liberalismo, perché la democrazia – spiegava – «è sovversiva». A volerla prendere sul serio è tremendamente esigente, tanto che la sua realizzazione è addirittura più difficile di quella del socialismo. Ed è sovversiva, «nel senso più radicale della parola» perché dovunque arriva «sovverte la tradizionale concezione del potere» che lo vorrebbe discendente dall’alto al basso. In questo persino più sovversiva del socialismo che, se inteso come «trasferimento dei mezzi di produzione dai privati allo Stato» riproduce, in forma ben più centralizzata, una «forma del potere che scende dall’alto», mentre qui si tratterebbe di un’autentica partecipazione «dal basso».
Non solo, ma aggiungeva allora Bobbio, la democrazia è tanto più difficile in quanto piena di paradossi che ne rendono incerta la realizzazione, primo dei quali le dimensioni delle organizzazioni in cui si struttura, per loro natura massificate, e si sa, per lo meno da quando Roberto Michels ha enunciato la «legge ferrea dell’oligarchia», che quanto maggiore è il numero dei partecipanti, tanto più verticale e selettiva è l’organizzazione dei processi decisionali e la struttura burocratica. Secondo paradosso – e ne vediamo oggi le dimensioni – la crescita esponenziale della complessità dei sistemi sociali moderni che richiedono «soluzioni tecniche non affidabili se non a competenti» che, come tali, si sottraggono al controllo democratico e producono quell’involuzione della democrazia in tecnocrazia (la quale è appunto «il governo dei competenti», ovvero dei tecnici). Infine, la «società di massa», caratterizzata da quel «conformismo generalizzato» che è la negazione dello spirito democratico.
Ecco perché più che di liberalsocialismo o di socialismo liberale, se proprio si volesse identificare il modello politico sostenuto dal Bobbio della maturità, si dovrebbe parlare piuttosto di una forma di «democrazia sociale» che, se fatta come dio comanda, nel suo favorire un forma di potere «dal basso» finirebbe per incarnare le ragioni di un socialismo pratico (una forma di giustizia sociale rispettosa delle libertà o, se si preferisce, di «libertà eguale» per tutti) che forse, al giro di boa dei nostri Anni 70, si sarebbe potuto ancora auspicare. Questo sarebbe stato il passaggio che avrebbe costituito il vero miracolo prodotto dall’ingresso nell’area di governo di un nuovo «player», di un giocatore fino ad allora escluso. Quel passaggio non vi fu. L’avvicinamento, parziale, fugace, dei comunisti al governo non segnò un soprassalto in senso democratico della democrazia (si scusi il bisticcio), in parte per mancanza di forza politica, ma anche, appunto, per assenza di pensiero e di volontà. Al contrario si accompagnò a una sostanziale continuità nei metodi di governo in nome della governabilità che rese definitivamente quelle della democrazia italiana – per riprendere ancora un’espressione di Bobbio – «promesse non mantenute».
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