Renzo Cotarella, amministratore delegato: “ Puntiamo su conoscenza, valore, condivisione e identità. Perché il vino è fatica”
GIUSEPPE CALABRESE
Trent’anni dopo a Renzo Cotarella brillano ancora gli occhi. «Il Cervaro è stato il primo vino che ho fatto. Un progetto visionario, un’esperienza straordinaria. Ancora oggi è il vino che mi dà più emozione.
Un’emozione infantile».
Sessantaquattro anni, umbro, laureato in Scienze Agrarie, da 39 anni lavora per Antinori. Oggi, dopo aver ricoperto vari incarichi, è amministratore delegato e responsabile dell’area tecnica. «E anche questa è un’anomalia nel mondo del vino… un agronomo amministratore delegato. Non un uomo di marketing o di finanza, ma un agronomo». Dalla terra alla terra, forse il segreto sta proprio lì, in quella passione che gli fa ancora sporcare le mani. «Senza passione questo mestiere non si può fare». Potrebbe vantarsi dei successi (nel 2001 è stato eletto miglior winemaker del mondo), ma non lo fa. Potrebbe sbandierare il prestigio di un brand conosciuto in tutto il mondo, però non fa neppure questo. Potrebbe esagerare con l’orgoglio (oltre al Cervaro è continuatore e affinatore del Tignanello e del Solaia, i rossi più famosi di casa Antinori ereditati da Tachis) ma non è nella sua natura di uomo semplice, dove la semplicità è un valore. Parla di vino volentieri, è la sua vita, e dopo oltre un’ora di chiacchierata riannodare i pensieri non è facile.
Però, e questo ci può aiutare, la sua filosofia è punteggiata di parole chiave. La prima è conoscenza. «Abbiamo aziende in tutto il mondo più per curiosità che per seguire un progetto.
Abbiamo fatto investimenti per la voglia di cimentarci. Conoscere vuol dire poter guardare avanti, fare scelte consapevoli. Ad esempio alle Mortelle, in Maremma, abbiamo piantato un po’ di Carménère, un vitigno molto diffuso in Cile e che noi conosciamo bene. Sapevamo che poteva adattarsi a quel territorio.
È una cosa che ci ha arricchito».
Antinori ha una struttura che si occupa proprio di ricerca e sviluppo. «La sostenibilità deve avere un senso». Ecco un’altra parola chiave, sostenibilità. «Per fare il vino buono ci vogliono uve buone, sane, ma il metodo deve essere sostenibile. Non è una questione di biologico o biodinamico, a tutti deve stare a cuore la salvaguardia della fertilità dell’ambiente, ma tutto quello che facciamo deve essere sostenibile». Il passaggio successivo è: valore. «È un passaggio strutturale. Prima il prodotto poi il fatturato. Se ci muoviamo nella direzione della qualità, allora riusciamo a creare valore. Dobbiamo imparare ad essere meno orgogliosi della quantità, e più orgogliosi del valore che riusciamo ad esprimere. Antinori non può essere Antinori in un mondo mediocre». Cotarella non ha dubbi, il futuro del vino in Italia passa anche dalla condivisione (altra parola chiave). «Il nostro è un Paese diviso, un indirizzo centrale da parte del governo è auspicabile, anche per darci maggiore visibilità. Ma solo se c’è una politica condivisa si possono creare le condizioni per lo sviluppo. Ci vogliono risorse per un progetto stabile, strutturale.
Occorre una strategia, una visione di lungo periodo. Il vino è un prodotto multigenerazionale.
Bisogna pensare al futuro». Ma condivisione è anche altro. «La famiglia Antinori produce nel suo complesso oltre venti milioni di bottiglie, però la nostra identità è fatta da tutte le piccole aziende che ne fanno parte. Ne abbiamo da 4 milioni di bottiglie, come da cinquantamila. E ognuna ha la sua indipendenza. Potremmo consolidare e riunire alcuni passaggi della produzione in modo da abbattere i costi, invece ogni azienda fa tutto in proprio, dalla raccolta all’imbottigliamento. Se vuoi attenzione per un prodotto, devi dare responsabilità. Si tratta di un’attenzione emozionale, quel prodotto lo hai fatto tutto tu, è tuo. E questo crea orgoglio e senso di appartenenza. Quello di Antinori è un modello di sviluppo federale». Non si può non parlare del Chianti Classico, e qui arriva l’ultima parola chiave: identità.
«Il Chianti Classico è un punto di riferimento importante e il vino deve rappresentare alla perfezione quel territorio. Non è un percorso facile, ma dobbiamo provarci. Soprattutto per il consumatore meno attento. E oltre a quelli di alta gamma, dobbiamo fare anche vini facili, pret a porter, sennò la gente non li capisce. Il Chianti Classico è un vino completo, equilibrato, vibrante e dolce, ricco e verticale. Fa parte della nostra cultura, e quella cultura va difesa». Anche dalla mistificazione di una certa comunicazione. Ancora Cotarella: «Mi dà fastidio la mancanza di trasparenza nella comunicazione. Il vino è un prodotto straordinario, che viene dalla fatica e dalla sofferenza delle persone. Se vai in campagna te ne rendi conto di quanta sofferenza c’è dietro un vino. E per questo va raccontato in modo eticamente corretto, senza inventarsi niente».