«È importante che anche noi possiamo esprimere le nostre opinioni, lottare per quello in cui crediamo». Così parlava Kobe Bryant nel 2014, quando insieme ai suoi compagni dei Los Angeles Lakers era sceso in campo con una maglietta nera che recitava «I can’t breathe», non riesco a respirare, le ultime parole pronunciate da Eric Garner mentre un poliziotto lo stava soffocando a morte.
Cinque titoli Nba, diciotto volte All Star Game, quarto marcatore di sempre nel campionato di basket a stelle e strisce (lo aveva superato giusto due giorni fa LeBron James al terzo posto) in venti anni di magie, sempre con la maglia dei Lakers. Due ori olimpici, a Pechino 2008 e Londra 2012, Bryant è stato molto più di uno dei migliori giocatori della sua generazione. E forse di sempre. È stato un attivista per i diritti civili, scegliendo di partecipare insieme a molti altri atleti alle proteste in sostegno del movimento Black Lives Matter. Sostenendo le battaglie di Colin Kaepernick che rifiutava di mettersi sull’attenti durante l’inno nazionale.
È STATO vincitore di un Oscar per il miglior cortometraggio animato nel 2018, Dear Basketball, splendida traduzione in immagini, per la regia di Glen Keane, delle sue commoventi lettere d’addio alla pallacanestro pubblicate su «The Players’ Tribune». È stato anche accusato, nel 2003, di violenza sessuale da una ragazza in Colorado. Una vicenda orribile, che non si è conclusa in tribunale solo perché la ragazza non si è poi presentata a testimoniare. Con Kobe che prima si è dichiarato innocente e, solo una volta cadute le accuse, si è scusato pubblicamente con la vittima. È stato tutto questo Kobe Bryant. Nato a Philadelphia e cresciuto in Italia al seguito del padre Joe, che ha giocato con Rieti, Reggio Calabria, Pistoia e Reggio Emilia, il record di punti già al liceo che gli fa decidere per l’immediato salto in Nba.
Charlotte che lo sceglie al draft ma lo spedisce a Los Angeles dove in coppia con Shaquille O’Neal cresce fino a confermarsi come la miglior guardia tiratrice della sua epoca. Poi con l’arrivo del guru Phil Jackson, cominciano ad arrivare i titoli in serie. Fino al 2016, quando si ritira. Fino a ieri, quando arriva la notizia destinata a lasciare senza fiato centinaia di milioni di appassionati in tutto il mondo. Un incidente in elicottero a Calabasas, zona a nord-ovest di Los Angeles, in compagnia di una delle quattro figlie, Gianna, morta anche lei. Sembra una domenica qualsiasi, e invece è un disastro. Kobe Bryant non c’è più.
LASCIA tre bambine e la moglie Vanessa, lascia sgomenta una generazione che con lui è cresciuta. La tragedia ricorda per certi versi quella di Ayrton Senna, eroi giovani e belli morti nel pieno del loro vigore atletico. Anche se, a 41 anni, Kobe si era appunto già ritirato. Tra le migliaia di tweet di commozione, sorpresa, incredulità e condoglianze, di sportivi, politici, attori e gente comune, spicca la dichiarazione di Kareem Abdul Jabbar, un altro atleta e uomo gigantesco. «La maggior parte delle persone ricorderanno Kobe come il magnifico atleta che ha ispirato un’intera generazione di giocatori di basket. Io lo ricorderò sempre come un uomo che è stato molto più di un semplice atleta». We can’t breathe. Siamo tutti senza respiro.