Presentata (in streaming) l’edizione 2020 diretta dal libanese Hashim Sarkis
di Manuela Pivato
VENEZIA — Abiteremo insieme, come nuove grandi famiglie, nello spazio digitale e in quello reale; supereremo i confini politici e il giardinetto di casa per creare senza paure altre geografie associative; proteggeremo il clima, gli oceani, l’Amazzonia, ma anche il nostro corpo. Il tema della diciassettesima Biennale di Architettura — in programma dal 23 maggio al 29 novembre — è racchiuso in un titolo che in questi giorni suona quasi profetico, “How will we live toghether?”: il titolo è una domanda e la domanda (per ora) resta aperta.
Presentata via streaming causa coronavirus dal presidente uscente della Biennale, Paolo Baratta, e dal curatore, l’architetto libanese Hashim Sarkis, a seimila chilometri di distanza l’uno dall’altro, il primo a Ca’ Giustinian, in laguna, e il secondo nel suo studio di Boston, la mostra spargerà tra i Giardini e l’Arsenale di Venezia i disegni, le installazioni, i plastici firmati da 114 progettisti in arrivo da 46 Paesi, mentre le partecipazioni nazionali nei singoli padiglioni saranno 63, inclusa — per la prima volta — quella di Grenada, Iraq e Uzbekistan.
Architetto più attento all’edilizia sociale che alla fama, alle case degli ultimi più che ai grattacieli; autore degli alloggi per i pescatori a Tiro, una delle comunità più povere del Libano, Hashim Sarkis coltiva l’inclusione come regola di vita cosicché la domanda del titolo, in realtà, contiene già la risposta in filigrana. «Abbiamo bisogno di un nuovo contratto spaziale — spiega — in un contesto caratterizzato da divergenze politiche sempre più ampie e da diseguaglianze economiche sempre maggiori, chiediamo agli architetti di immaginare spazi nei quali vivere generosamente insieme».
Insieme, dunque, gli architetti, gli artisti, i costruttori, gli artigiani, i sociologi per progettare luoghi di aggregazione, come i modelli abitativi per i millennial in Africa, realizzati sovrapponendo appartamenti leggeri sulle case di famiglia; o i condomini dalle insondabili potenzialità, trasformati in tipologie residenziali collettive. «In un’epoca in cui può essere diffusa la sensazione non più di essere a cavallo di un progresso, ma vittime dei cambiamenti che esso comporta e in cui molti possono approfittare delle paure, dei timori, delle frustrazioni che ne derivano — dice Baratta, che con un filo di emozione si congeda dalla carica di presidente, sostituito da Roberto Cicutto — ci pare utile una Biennale che richiami a tutti che l’identità di una società o di una comunità sta nella qualità dei progetti che è capace di formulare per il suo futuro. Per correggere storture e valorizzare risorse ».
Organizzata in cinque “scale”, tre in Arsenale e due al Padiglione Centrale, la mostra presenterà progetti «che spaziano dall’analitico al concettuale, dallo sperimentale al collaudato e all’ampiamente diffuso», dice ancora Sarkis. Oltre a una serie di grandi installazioni allestite negli spazi esterni, che proveranno a dare una risposta al quesito del titolo.
Ritorna a Biennale Architettura il progetto speciale al Padiglione delle Arti Applicate, in Sala d’Armi, che quest’anno si intitolerà “British Mosques” e guarderà al mondo “fai da te” delle moschee adattate a questo uso. Spazio anche alle idee sviluppate da ricercatori delle università di tutto il mondo riunite nella sezione Stations+ Cohabitats.
Una sezione, infine, sarà dedicata a Venezia per immaginare il futuro della città e celebrarne — oggi più che mai — la resilienza.
Il curatore Sopra, Hashim Sarkis, 56 anni, direttore della Biennale Architettura A sinistra, il progetto di Elisa Silva As Emerging Communities