Omaggi Dai primi pezzi scritti per gli spettacoli alle leggendarie corrispondenze: ritratto di un inviato in un giorno speciale
di Gian Antonio Stella
Gli esordi come maestro, cantante, barista, stuart su un transatlantico. Poi gli incontri, i giornali, i reportage di guerra. E, oggi, i nostri auguri
«Ciao Fo». «Ciao Mo». Quando si trovò tra le mani la fulminante chiusa dell’intervista, ci fu chi sollevò il sopracciglio e andò diritto dal direttore sbuffando come il poeta Carlo Porta in uno dei suoi endecasillabi: «Se pò nò, se pò nò!», non si può! Al che Piero Ottone, dice la leggenda, scoppiò a ridere: «Lo so che vige la regola di evitare i personalismi, ma quando ci ricapita?». Aveva ragione. Era un incontro più unico che raro. Di qua c’era un formidabile teatrante, attore e scrittore che anni dopo avrebbe vinto il Nobel per la letteratura. Di là un cronista in ascesa degli spettacoli (memorabile l’intervista ad Arthur Rubinstein cui chiese quale fosse il segreto dei suoi successi con le donne e lui rispose: «Le adoravo, semplicemente: e le donne adorano essere adorate») che di lì a poco sarebbe diventato forse il più grande inviato di guerra (e non solo) degli ultimi decenni.
Dicono tutto certi straordinari incipit dei suoi reportage. Come il primo dall’Afghanistan, dopo cinquecento chilometri a piedi coi mujaheddin in guerra coi russi: «Mawli Bismilha passava per uno dalla mira infallibile, dicevano che avrebbe fulminato un passero a trecento metri: ma i tre soldati russi che montavano di sentinella, quella sera, sul ponte di Jalalabad, non lo sapevano, e quando sono risuonati i tre colpi sono andati giù come birilli, dietro il parapetto». O la denuncia dell’immonda strage israeliana nei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila dov’era riuscito a arrivare per primo: «La bambina (tre o quattro anni) è come accartocciata sopra una pietra, la testa nella terra, uno squarcio nel braccio sinistro da cui esce una materia nera, strisce di sangue non ancora seccato sulle gambe nude e sui piedini. Accanto alla testa c’è un piede di donna, con le unghie smaltate di rosso…». O ancora il primo impatto con l’Iran dopo la rivoluzione khomeinista: «L’ayatollah imperversa, non dà scampo in questi giorni. Ti aspetta alla frontiera e, appena dentro, ti viene incontro dal muro, con le sue pupille nere folgoranti. Vuol subito sapere — è chiaro — da che parte stai o stavi. E guai alle bugie, non le tollera. Se poi giri le spalle credendo di liberartene, ne scorgi immediatamente un altro sulla parete opposta, più minaccioso e arcigno…».
Per capire come Ettore Mo passò dai set cinematografici con Lisa Gastoni agli incontri nella giungla colombiana col capo dei guerriglieri delle Farc Manuel «Tirofijo» Vélez, dagli annuali appuntamenti al Festival wagneriano di Bayreuth ai bui rifugi sotterranei zeppi di topi del ceceno Džochar Dudaev accusato di «aver fatto di Grozny la capitale dei gangster», per poi sfociare in strepitosi reportage come quello sui fiumi più solenni del pianeta o la sfida grandiosa tra il condor e il toro sulle vette del Perù, occorre però partire dall’inizio. Quando Ettorino, figlio di un falegname, prese una sbandata per i libri d’avventura e gli idrovolanti che si levavano dalla spiaggia «per raggiungere un’altra parte del mondo, sconosciuta a noi bambini».
Giusto il tempo di prender il diploma di maestro elementare e tirar su qualche soldo come supplente e si iscrisse a Ca’ Foscari, a Venezia: Lingue e letterature straniere. Ma come mantenersi? Trovò un lavoro part time in un istituto padovano per ragazzi non vedenti («Uno cieco dalla nascita mi chiese: «Profesor, come xè un treno?») dei quali cercava di alleviare l’infelicità animando partite a calcio sul cortile di cemento con un barattolo di latta («lo rincorrevano seguendo il deng-deng e tra una zuccata e l’altra si divertivano da matti») e portandoli una sera, dopo un concerto, a fare visita a certe signorine allegre e pie che incoraggiavano i timidi in un coro di «toca, toca!».
Da bambino guardava gli idrovolanti partire «per un mondo a noi sconosciuto»
Non si laureò, ma le lingue le imparò davvero. E dopo aver passato più estati a fare il barista al Tartar Bar sull’isola di Jersey, decise di ripetere l’esperienza facendo pratica anche col francese come sguattero-cameriere «in un ristorante di place de La Sorbonne che si chiamava Saint-Bernard per via di un cagnone dal manto bianco pezzato che scodinzolava fra i tavoli». Ma quelli furono solo i primi lavori. Proseguì infatti facendo, tra gli altri, il bibliotecario ad Amburgo, il maestro di francese per i bambini del collegio «Nuestra Señora de las meravillas» a Madrid, il «cantante napoletano» a Stoccolma («Avevo studiato lirica per qualche anno e “messo in gola“, come si dice in gergo, due o tre spartiti del repertorio lirico leggero») e ancora più a nord a Piteå, a duecento chilometri dal circolo polare artico. Per tornare infine in Inghilterra, a fare l’inserviente al Royal Hospital di Putney Hillin, un ospedale per incurabili: «Chi c’era aspettava solo di morire. Dovevo rifargli il letto, imboccarlo, mettergli il catetere. Ci restai quattro mesi, aspettando il momento di partire per girare il mondo. Volevo vedere, conoscere, scrivere. Insomma, volevo fare il Conrad».
Fu così che finalmente riuscì a imbarcarsi come cameriere di prima classe («scrivi stuart») sul transatlantico «Orsova». «L’itinerario era fantastico: Gibilterra, il Canale di Suez, l’India, Ceylon; e poi l’Australia, la Nuova Zelanda, le Fiji, e su su, nel Pacifico, fino a Hong Kong, il Giappone, le Hawaii; quindi giù giù la California, il Messico, l’istmo fatato di Panama, il Mar dei Caraibi e di nuovo l’Atlantico, fino a Londra».
Quanto rientrava sul Tamigi portava dei racconti di viaggio a Piero Ottone, allora corrispondente del «Corriere». Ripartiva e aspettava. Finché un giorno gli arrivò la risposta. Indimenticabile: «Caro Mo, ho letto i suoi reportage. Credo che lei sia persona atta a fare questo mestiere». Atta. L’ultima notte da marinaio, dopo avere smaltito una sbornia colossale con l’equipaggio sulla panchina di un commissariato con un Bobby che sarebbe diventato suo grande amico, si mise il vestito buono e si presentò. Era il 10 giugno 1962: «Il capo, nella scia di Ottone, era Alfredo Pieroni, sotto c’era Pietro Sormani e poi c’ero io: il vice del vice del vice. I miei pezzetti non venivano neanche siglati. Ci mettevano sotto una V maiuscola, col punto: “V.” Per cinque anni sono stato il milite ignoto del “Corriere”».
Rientrato in Italia per gli esami da professionista, si beccò altri cinque anni da milite ignoto in uno stanzino del «Messaggero»: «Cinque anni senza scrivere una riga. Non ci facevamo la guerra, anzi: ero lì solo per tappare i buchi e leggere ai colleghi di via Solferino i titoli che pubblicava il giornale di Roma». Un giorno, timidissimo, chiese all’allora direttore Giovanni Spadolini se per favore, dato che aveva fatto per anni il «terzo» a Londra e conosceva varie lingue, potesse essere utile a «fare qualche didascalia agli esteri». Fu gelato: «Mo, un po’ di umiltà». Lui, il futuro presidente del Senato, aveva una stazza fisica e culturale immensa, Ettore era un metro e 57 e uscì con il morale a pezzi. Pochi anni e sarebbe diventato nelle sue eccellenze («Il “Corriere” toglie e dà», ha sempre detto legatissimo al suo giornale) il più bravo di tutti. Amatissimo. Oggi compie novant’anni. Grazie.