di Giuliano Foschini Luca Pagni
L’incredibile storia della vendita (vera o millantata che fosse) di navi e aerei militari italiani alla Colombia, rischia di non essere soltanto un problema per la reputazione dell’ex premier Massimo D’Alema. Che di quella trattativa è stato in qualche modo protagonista. In queste ore si sta rivelando, al contrario, un terremoto soprattutto per i vertici delle due aziende di Stato italiane, Leonardo e Fincantieri: l’amministratore delegato, Alessandro Profumo, in particolare, e il manager della società delle navi, Giuseppe Giordo. Il caso, come era inevitabile che fosse (e come probabilmente voleva chi ha diffuso gli audio dell’incontro) è diventato politico. Nel governo e in Parlamento – ieri è stata depositata un’interrogazione al ministro della Difesa, Lorenzo Guerini, dal segretario di Sinistra Italiana, Nicola Fratoianni- c’è chi chiede risposte su come la trattativa sia stata condotta e vuole risposte sulle eventuali responsabilità dei manager. In un momento, questo, che non è affatto neutro.
A maggio, infatti, l’esecutivo dovrà ridisegnare i vertici di Fincantieri mentre il prossimo anno tocca a Leonardo. Con l’idea, che potrebbe riprendere quota, di creare un’unica grande azienda della Difesa italiana.
La questione ruota attorno a un punto, al centro anche dell’inchiesta interna che Leonardo ha aperto in queste ore. La società italiana aveva in piedi una trattativa ufficiale per la vendita di sei velivoli M346 con un intermediario colombiano. Una trattativa di cui erano a conoscenza tutti i manager della società, a partire dell’ad Profumo. E della quale era stato interessato anche il governo italiano, che aveva preso contatti ufficiali con l’esecutivo di Bogotà. Nello specifico, da un anno esisteva un contratto con un promoter locale, la Aviatek group, scelto dopo mesi di ricerca. «Da chi – si chiede in sintesi nell’audit – e per quale motivo viene autorizzata una trattativa parallela? Chi sapeva e cosa?».
In un’intervista a Repubblica , l’ex premier D’Alema ha raccontato di essere stato contattato da due presunti emissari del governo colombiano e di averli messi in contatto con Leonardo e Fincantieri. E di averlo fatto gratuitamente, senza aver avuto alcun incarico dalle due aziende italiane. E di essersi mosso anche perché le società sono clienti importanti di Ernst&Young, la società di consulenza di cui l’ex premier è presidente dell’advisor board. Da parte loro, le aziende non hanno mai negato i contatti con gli intermediari che avrebbero dovuto favorire gli eventuali contratti. Anche se c’è una differenza nelle posizioni dei due colossi di Stato. Fincantieri era arrivata a firmare quello che nel gergo degli affari si chiama Mou (memorandum of understanding), un documento in cui si fissano i contorni dell’operazione ma senza entrare nei dettagli economici. Leonardo non era nemmeno arrivata a questo punto: secondo fonti vicine all’azienda, si stava solo valutando eventuali «opportunità di business», e per questo era stato chiesto al responsabile commerciale di verificare se fosse stato possibile ampliare la commessa e al momento era solo stato firmato un accordo di confidenzialità con lo studio americano Robert Allen Law e fornito materiale che si può ricavare anche dal sito aziendale.
Non è chiaro, però, perché viene scelto un nuovo studio quando esisteva già un riferimento. E per quale motivo viene consentito un sovrapporsi di trattative.
Dall’esito dell’audit di Leonardo dipenderà il futuro immediato di Profumo. Fermo restando che al governo ritengono molto difficile che il prossimo anno possa restare in azienda, magari come presidente, come si era ipotizzato nei mesi scorsi. Il prossimo mese dovrebbe concludersi invece l’esperienza in Fincantieri di Giuseppe Bono, che guida il gruppo dal 2002. Non saranno le uniche nomine da fare: cambio di vertici anche in Invitalia, Snam, Italgas e Autostrade.