di Carlo Galli
Per quanto elimini dalle prove referandarie uno dei quesiti di maggiore richiamo, la bocciatura del referendum sull’eutanasia da parte della Corte costituzionale è giustificata dai problemi che nascono da un intervento semplificatorio e abrogativo — tipico del referendum — su una materia molto complessa.
Problemi che potrebbero comportare la messa a rischio proprio delle persone più fragili e indifese.
Quella che non è giustificata, invece, è la posizione di coloro che si rifiutano di entrare nella complessità e nella responsabilità della decisione, sostenendo che non si tratta di una priorità per gli italiani. Come se la malattia e la sofferenza non facessero parte, purtroppo, dell’esperienza quotidiana di tante persone. Come se ciò non fosse testimoniato appunto dalla facilità con cui sono state raccolte le firme per il quesito referendario. È una posizione che non ha il coraggio di essere apertamente contro l’eutanasia con posizioni di principio, ma vuole ugualmente impedire l’innovazione legislativa sul tema — mentre proprio la Corte costituzionale fino dal 2019 aveva sollecitato, finora invano, il Parlamento a legiferare -.
L’eutanasia — che qualcuno, in condizioni disperate, ponga fine alla propria vita, per mano di altri ai quali ha dato il consenso — è indubbiamente una questione divisiva, come tutte le questioni biopolitiche radicali: quelle, cioè, in cui la politica è chiamata a decidere direttamente sulla vita e sulla morte dei cittadini.
Nessuna meraviglia, quindi, che si affrontino due posizioni serie e fondate: una è quella cattolica, che nega che la vita sia decidibile, tanto dalla politica quanto dalla volontà del singolo: la vita è un dono, non una proprietà privata. L’altra è quella laica, per la quale, invece, la vita appartiene al singolo, che ne è, appunto, il proprietario e può disporne come crede — purché non nuoccia ad altri, e purché la sua volontà sia libera -.
I fautori della prima tesi sottolineano che la logica interna di una legge permissiva va nella direzione di svalorizzare la vita che non sia bella, utile, felice, sicura di sé; che cioè si asseconderebbe una tendenza universale, che va invece denunciata e contrastata.
L’umano non è una merce a scadenza; la vita, non la morte, è un diritto soggettivo; la morte va accolta, non decretata. Da parte laica si afferma invece che la svalorizzazione sta proprio nel fatto che non si permette al singolo di uscire da una vita insopportabile, da una non-vita; e che è proprio questa suprema libertà, non la vita in quanto tale, a non essere a disposizione di altri (Stato, Chiesa, famiglia) che non siano il soggetto direttamente interessato. Semmai, una legge al riguardo è opportuna per consentire l’esercizio sicuro di quella libertà, per impedirne l’abuso, per scongiurare coercizioni — ma, possibilmente, senza che al calvario già in corso si aggiunga un calvario burocratico -. In generale, si dice in questa logica, di limitazioni della libertà ce ne sono già troppe.
Si tratta, con ogni evidenza, di un tema ben degno di un dibattito parlamentare, condotto con coraggio intellettuale e con serena volontà di confronto. Dove se non nell’istituzione che rappresenta la sovranità del popolo si può e si deve dibattere e decidere una questione che interpella tutti, e che esige una risposta saggia ed equilibrata?
Dato che l’emendamento soppressivo delle destre è stato respinto ieri sera in Aula, si hanno ragioni per credere che l’eutanasia non sarà uno dei tanti nodi irrisolti che caratterizzano questa legislatura; e che la politica questa volta non lascerà tutto com’è — cioè affidato al caso, all’improvvisazione, al sotterfugio -.
Per credere, insomma, che la politica abbia colto l’occasione di mostrare che sa fare quello che il popolo ha chiesto; che ha scelto di dimostrare di essere in vita.