Un legame stretto tiene insieme l’attività di urbanista di Carlo Doglio (Cesena 1914, Bologna 1995) e la sua militanza nell’anarchismo: si coglie in modo netto nella raccolta degli scritti curati da Stefania Proli, nel libro Il piano aperto (elèuthera, pp. 199, euro 17), che si aggiunge a quella precedente di Chiara Mazzoleni: Carlo Doglio, Selezione di scritti 1950-1984, Iuav, 1992).
L’importanza di tornare a riflettere sul pensiero teorico di Doglio ha un interesse, soprattutto adesso, non solo di carattere storiografico. L’urbanistica, a distanza ormai di un lustro dai testi del nostro «esperto pianificatore» risalenti al decennio degli anni 60, ha rinunciato a porsi in maniera problematica e critica nei confronti delle trasformazioni della città e del territorio. È superfluo illustrare ora le molteplici ragioni che l’hanno condotta ad essere subalterna ai processi di «privatizzazione», se non corresponsabile della deregulation urbanistica.
DOGLIO NON VIDE l’aggravarsi dei riprovevoli effetti che i nuovi fenomeni prodotti dalla finanziarizzazione immobiliare avrebbero prodotto nelle città e nei territori, tuttavia intuì con largo anticipo alcune cause che ne hanno favorita l’espansione: da un lato la «tecnocrazia», dall’altro il «mondo astratto dei partiti». Comprese come la tecnica e politica, insieme, avrebbero disperso la «carica tramutativa» dell’urbanistica e con i loro «principi d’autorità» e «gerarchie» impedito che la pianificazione diventasse un’«opera d’arte collettiva» secondo quanto formulato dal pensiero di Geddes e Mumford e idealmente contenuto nelle tesi libertarie di Kropotkin, Bakunin, Proudhon: i suoi autori prediletti e dei quali curò alcune loro edizioni. Attraverso l’esposizione di una serie di suoi concetti, quali quelli di «crescita organica», pianificazione a «misura umana», «rapporto uomo-ambiente» o «sviluppo organico nonviolento», si torna con Doglio ai valori fondanti l’urbanistica che per lui consisteva nel «superamento, non solo formale, delle necessitazioni socio-economiche» e di conseguenza il sapere costituente la «struttura portante, e biologicamente vivente, della vita».
Con il piano «armonico» e «aperto» originato dal basso e modificabile perché collegato a «l’unica realtà che è quella di (biologicamente) esistere», Doglio pensò possibile ordinare l’ambiente urbano allo scopo di frenare gli egoismi individuali e salvaguardare gli interessi comuni.
LE PAGINE della sua urbanistica «libertaria» sono ricche di episodi vitali e appassionanti. In particolare quello accaduto in Sicilia e che ebbe inizio nell’autunno del 1960 nell’incontro con Danilo Dolci.
Prima di raggiungere l’isola aveva trascorso un lungo periodo a Londra, inviato lì da Adriano Olivetti, per studiare la pianificazione territoriale sulla quale esprimerà le sue critiche dalle pagine della rivista Comunità definendo le Unions dei «mammouth che impacchettavano le volontà individuali».
A PARTINICO dove stabilì la sua residenza, Doglio si calò nei problemi della comunità agricola di quella parte centro-meridionale della Sicilia inaugurando una stagione di piani comprensoriali la cui sperimentazione faceva ben sperare soprattutto nella fase della ricostruzione post-terremoto del Belice.
All’indomani del drammatico evento accaduto nel 1968, vi era l’«occasione di tagliar corto con un passato di staticità». Un peccato che nel conflitto tra Stato e Regione s’inaridì, invece, quella meritevole iniziativa rappresentata dalla «pianificazione intermedia», ovvero l’applicazione di strumenti urbanistici a scala comunale o di più comuni consorziati, per la quale Doglio si batté con strenuo impegno.
Nel 1969, quando lasciò la sua libera docenza a Palermo, chiamato da Giuseppe Samonà all’Istituto universitario di architettura di Venezia. Non smise di pensare al suo «paese del cuore» e con Leonardo Urbani, nel 1972 (anno del suo ordinariato), darà alle stampe La fionda sicula, un saggio in forma di racconto, dal quale la nostra autrice ha tratto un ampio stralcio per il capitolo finale della sua raccolta.
CON LA METAFORA della «fionda» immaginava di superare l’arretratezza e le disuguaglianze isolane. Un vertice della forcella era costituito da una «vitalizzazione economica interna ad alto livello tecnologico» insieme a un «sistema di grandi comunicazioni» in grado di connettere la Sicilia al resto del mondo. L’altro vertice, invece, era rappresentato dalla specificità dei territori con la loro storia in grado di generare quell’intrinseca forza che estroflettendosi avrebbe determinato un concreto mutamento. Le «corde-elastiche» della fionda erano figurate dai territori trasformati del Belice e dalle valli del Platani e del Salso che sulla base delle loro singole economie, agricoltura e industria mineraria, si sarebbero conformate alla domanda dei mercati. Il sasso, alla fine, era la regione del Corleonese in grado per la sua vicinanza alla costa (Palermo e Termini Imerese) di assolvere il compito di «attacco», quindi di connessione con l’esterno. In questa «suggestione formale» era contenuta un’idea per nulla astratta e romantica delle possibilità di riscatto sociale ed economico di aree marginalizzate nella loro immobilità.
Nessun risultato si ottenne, ma la lezione di Doglio è ancora lì a dimostrare che dalle sue riflessioni si dovrebbe ripartire per contrastare le deviazioni dell’urbanistica: sapere capitale per il destino delle nostre città.