Da una piccola analisi delle denominazioni scelte dai micropartiti collocati in una ristretta area del tre o quattro per cento in termini elettorali, si può vedere come essi siano privi di identità, evitando qualsiasi riferimento al socialismo
Sarà pure seccante doverlo ammettere, ma non si vede ombra di vita – se non quella decerebrata degli zombi – a sinistra di quel partito più di centro che di centrosinistra che è il Pd. Parliamo di una sinistra politica, perché al contrario non mancano certo le associazioni, i circoli, i gruppi, di ciò che può essere detta la sinistra diffusa. Questa senz’altro vive, si dà da fare, sebbene sia spesso priva di bussola: perché “sinistra” di per sé non è una parola sufficiente a connotare un’identità e una prospettiva che sarebbero da definire politicamente. Tra le ipotesi possibili, infatti: una sinistra liberale, una anarchica, una di tradizione comunista (ortodossa o eretica che sia), una socialista nel senso di socialdemocratica, una ecologista o eco-socialista, e ancora – sintomo di evidente disperazione – perfino una sinistra populista di marca latinoamericana. Ma i micropartiti presenti in quell’area che si presume a sinistra del Pd, oggi del tre o quattro per cento in termini elettorali, o sono un misto di tutto ciò o non sono nulla di preciso: così da essere scarsamente riconoscibili già a cominciare dai loro nomi.
Si inizia con quell’Articolo uno, frutto di una scissione del Pd provocata dal centrismo ipercentrista del periodo renziano, che ha assunto – con una denominazione piuttosto anodina – una caratterizzazione liberaldemocratica, “democratica e progressista” tutt’al più, dimenticando che il primo articolo della Costituzione, e la sua tipica espressione “Repubblica fondata sul lavoro”, fu il risultato di una mediazione di Fanfani: perché la proposta delle sinistre era invece quella, nient’affatto vaga o generica, di “Repubblica dei lavoratori”.
Si prosegue con Sinistra italiana, dal nome troppo pomposo per quello che è e insieme poco chiaro: non si comprende, infatti, in che cosa consista l’identità di questa “sinistra” (a parte il riferimento all’Italia). Il nome precedente – Sinistra, ecologia e libertà (Sel) –, sia pure nella forma di un elenco che sfuggiva a una sintesi, metteva se non altro a fuoco gli ingredienti della nuova forza politica che non c’è mai stata – evitando tuttavia, anche in questo caso, il termine “socialismo”, che quasi nessuno riesce più a pronunciare, nonostante sia l’unica parola che possa ancora indicare una prospettiva di superamento del capitalismo. Risultato di un’aggregazione che provocò immediatamente una separazione (pressoché un record, questo), Sinistra italiana ha ottenuto, con un tentativo di unità attraverso Liberi e uguali, una minima rappresentanza parlamentare. Ma quando si è trattato di passare dal cartello a una nuova organizzazione con gli altri contraenti del patto elettorale, cioè con quelli di Articolo uno, questi si andavano atteggiando sempre più chiaramente a rientrare in un Pd ormai post-renziano.
Soltanto che dal Pd – a volerlo far diventare un partito socialdemocratico – dovrebbe uscirne, o esserne esclusa, la forte componente di Franceschini (per tacere dei renziani superstiti rimasti al suo interno) che ne segna l’indelebile eredità democristiana. Ciò tuttavia sarebbe improponibile. E se anche fosse possibile, a che pro scombinare il povero Pd in mancanza di un progetto veramente alternativo? Per cui tanto vale riadattarsi dentro quello che c’è. La prospettiva attuale di Articolo uno è tutto sommato comprensibile. Non si dimentichi, del resto, che Bersani (per fare un nome di spicco all’interno di questa formazione, e quello di una persona al tempo stesso simpatica) è noto per le “lenzuolate” che contrassegnarono la sua azione di ministro, le quali furono delle liberalizzazioni su larga scala. Ora, in certi casi le liberalizzazioni ci possono pure stare (per esempio quando si tratta di contrastare una specie di monopolio corporativo, come quello delle farmacie o dei tassisti, al fine di migliorare un servizio), ma in molti altri no (come nel caso di una storica libreria fiorentina, con arredi e scaffalature pregiate e “vincolate”, che finisce con l’essere messa in vendita diventando una boutique di Max Mara). E volendo andare oltre quello statalismo di marca sia comunista sia socialdemocratica, “socialismo” dovrebbe significare movimento verso le socializzazioni, non verso le liberalizzazioni e le privatizzazioni – come invece fu, già prima della costituzione del Pd, per un intero ceto politico proveniente dal Pci, che altro non seppe fare se non trasformarsi in liberaldemocratico e liberista, allineandosi alla cosiddetta “terza via” di Blair.
Dunque ritornino pure a casa quelli che si fecero sconfiggere da un Renzi più blairista di loro, supponendo di potere controllare in eterno quel congegno da apprendisti stregoni che è il rito plebiscitario delle “primarie”, e di quella cattiva esperienza facciano tesoro. Ma gli altri che cosa pensano di fare?
Durante un recente incontro online (di cui ha riferito Antonio Floridia su “terzogiornale”), Maria Luisa Boccia, riferendosi evidentemente a Sinistra italiana, ha proposto di rimanere fuori dalla competizione elettorale almeno per un turno, al fine di puntare piuttosto su un radicamento sociale. Maria Luisa ha ricordato, in proposito, il dibattito che si ebbe, nel lontano 1972, all’interno del gruppo del Manifesto riguardo alla presentazione alle elezioni (che, tra parentesi, furono un disastro) e la posizione astensionista di Rossanda. Il paragone purtroppo non regge: all’epoca era ancora in piedi un vasto movimento anticapitalistico, e c’erano gruppi sparsi di una sinistra sedicente rivoluzionaria cui rivolgersi, per cui una scelta come quella avrebbe avuto un senso (pur senza finire in un astensionismo di principio di stampo bordighista). Ma oggi? Non che non ci siano movimenti o agitazioni sparse – sebbene spesso qualunquistiche e di destra –, ma manca di sicuro quell’humus, quella cultura politica, che renderebbe comprensibile una scelta “rivoluzionaria” come quella di non essere presenti affatto alle elezioni.
Il gruppo di Sinistra italiana si prepara quindi, mestamente e modestamente, a riallearsi in qualche maniera con il Pd, se non altro per avere una rappresentanza parlamentare di testimonianza. Il Pd di Letta non sembra voler cambiare la legge elettorale (a parte qualche minimo aggiustamento): e perciò Sinistra italiana, stando così le cose, dovrà allearsi in anticipo con il Pd, rinunciando in partenza alla propria autonomia.
Alla fin fine, come si vede, tra il rientrare nel Pd e il riallearsi con il Pd in chiave subalterna, la distinzione non è che sia granché. Gli zombi, del resto, non vivono di vita propria. La questione di un nuovo partito socialista ecologista si porrà, a un certo punto. Ma non sarà dagli informi piccoli gruppi attuali – né tantomeno da una sinistra comunista identitaria e residuale – che potrà venire una svolta. I partiti sono delle nomenclature della società, frutti cioè di un ambiente sociale che li genera: ciò vale in generale, ma in modo particolare per una forza politica di sinistra. Podemos (di cui peraltro non siamo dei fan) nacque dal movimento degli indignados che tenne banco in Spagna per tutto il 2011. Qualcosa del genere dovrà accadere anche in Italia perché ci sia vita a sinistra del Pd.