saggistica
Un volume ricostruisce la storia delle grandi scoperte dovute all’attitudine di chi sperimenta: l’immaginazione
di Chiara Valerio
Che la scienza non abbia certezze inscalfibili lo impariamo ogni giorno di questo coronacene. Che la mancanza di certezze sia una prassi, coincida anzi in estrema sintesi col metodo scientifico è qualcosa che possiamo imparare o attraverso la pratica o come Indiana Jones nella terza prova di Indiana Jones e l’ultima crociata: fidandoci.
Se d’altronde la scienza non sbandiera certezze che non siano parziali e temporanee, non si capisce — non capisco — come si possa prendere una posizione antiscientifica. Intuisco certe motivazioni giuridico- burocratiche del miscellaneo fronte antivaccinista per esempio, ma non quelle medico-scientifiche perché, ripeto, la scienza è un processo che procede per verità sempre parziali.
Il saggio di Jimena Canales — dottorato di ricerca in Scienze della Storia ad Harvard — si intitola L’ombra del diavolo. Una storia dei demoni nella scienza, è stato appena pubblicato da Bollati Boringhieri ed è formidabile. La tesi del saggio è che la storia della scienza coincide con la storia dei demoni evocati dagli scienziati per sottolineare i limiti e le possibilità delle teorie che via via andavano costruendo e che non potevano avere, a quel punto, il conforto di un risultato che non fosse quello di un esperimento mentale. Il demone nella scienza dice che ci sono cose immaginabili, ancora impossibile da dimostrare ma che nel futuro potranno essere verificate, contraddicendo o confortando una teoria. Per prassi culturale la scienza contempla la contraddizione.
Per chi non ha frequentato facoltà scientifiche, il parallelo storia della scienza/ storia dei demoni degli scienziati suona paradossale. La scienza è il contrario dei demoni nella misura in cui è servita e serve a limitare o sfatare le superstizioni. Chi ha frequentato facoltà scientifiche si convince subito che Canales ha ragione. Siamo entrati nell’illuminismo perché il diavoletto di Cartesio voleva impedirci di distinguere tra ciò che è vero e ciò che è falso, abbiamo accettato la possibilità del determinismo perché il demonietto di Laplace ci ha rassicurato che in fondo potevamo conoscere tutto il passato e grazie a tutto il passato tutto il futuro e così ci siamo messi a progettare le macchine calcolatrici, il diavoletto di Maxwell — grande protagonista della fisica alle scuole superiori — era una specie di valvola minuscola che riusciva a selezionare e spostare da un lato a un altro di una membrana le particelle più agitate di un medesimo gas creando una differenza di temperatura e mettendo così in crisi il secondo principio della termodinamica. La scatola di Schroedinger col gatto dentro è essa stessa un demone, e i viaggiatori che si muovono a velocità superiori a quella della luce — Einstein pure li usa nei suoi esperimenti mentali — cosa sono se non demoni luminosi che contraddicono quella che è — a oggi — la costante dell’Universo. I demonietti costruttori di minuscoli mulini a vento per sfruttare il moto browniano delle particelle hanno più a che fare con la letteratura o con l’immaginazione degli scienziati.
Canales sottolinea quanto la prima caratteristica degli scienziati sia l’immaginazione che, come l’intelligenza, può tenere insieme due concetti antitetici, dunque ancora, come è possibile avere una posizione antiscientifica?
C’è un breve saggio che, di tanto in tanto, rileggo perché assona a una mia ossessione infantile: chiamiamo ragione tutti i sentimenti e le intuizioni dei quali riusciamo a stabilire un inizio, uno sviluppo e a prevedere una parabola. Le ragioni sono i sentimenti dei quali riusciamo a fornire un racconto coerente. È lo stesso motivo per cui le trame, nei romanzi, ci rassicurano. Si intitola Il rituale del serpente (Adelphi, trad. G. Carchia e F. Cuniberto) e in esso Aby Warburg descrive un viaggio di studio tra gli indiani Pueblo e a partire dai loro miti e riti, analizza, tra altro, il rapporto tra scienza e prescienza, passando per la descrizione di alcune tecnologie, dove per tecnologia si intende ciò che rende tangibile quello che tangibile non è. Così la magia è una forma di tecnologia (una certa sequenza di gesti propizia la pioggia) e, viceversa, la tecnologia è una forma di magia ( premo un tasto qui perché qualcosa accada là). Mano a mano che la scienza evolve si aprono al suo interno nuclei di prescienza — regioni in cui il principio di causa ed effetto non si è ancora assestato, e nelle quali attribuiamo certe conseguenze a certe azioni (ballo e piove). La tecnologia rende visibile e tangibile la scienza, e talvolta ne prende il posto. Ma in questa sostituzione le linee d’ombra, le domande, i diavoletti, la certezza che la scienza non abbia certezze si perdono. Tutto sembra talmente esatto che manca lo spazio per vivere. Ecco, tra i tanti meriti, il saggio — annotato, documentato, appassionato — di Jimena Canales, ha quello di rivendicare per la scienza e per gli scienziati le incertezze e le superstizioni di ogni umana azione e pensiero.