Un altro capitalismo è possibile

Il saggio di Salvati e Dilmore spiega che dalla crisi finanziaria e dalla pandemia sta nascendo un modello diverso. Capace di superare sia Keynes che Friedman
di Giancarlo Bosetti
Le stagioni della nostra recente storia politica hanno dei connotati e un “carattere” che li distinguono: come non riconoscere la fisionomia dell’onda lunga “neoliberale” partita negli anni Ottanta? E, prima, la faccia «socialdemocratica” dei trent’anni seguiti alla Seconda guerra mondiale? E, più indietro ancora, l’epoca del liberalismo “laissez-faire” e della seconda rivoluzione industriale tra il 1870 e la Grande guerra? Tra queste fasi ci sono dei lunghi intervalli, quelli che Gramsci descriveva come «interregni », dove il vecchio muore, il nuovo non riesce a nascere e capitano fenomeni “morbosi”. Ora dove ci troviamo?
Un libro di prossima uscita per Feltrinelli, importante, documentatissimo e ricco di novità, propone una chiave teorica originale per rispondere alla domanda. L’hanno scritto due economisti con propensione per la teoria politica, uno noto, Michele Salvati, e l’altro nascosto, già da tempo, dietro uno pseudonimo enigmatico, Norberto Dilmore. Si tratta di Liberalismo inclusivo. Un futuro possibile per il nostro angolo di mondo (pagg. 270, euro 22). Quando si afferma uno schema vincente, esso tende occupare tutto o quasi il terreno di gioco.
Prendiamo i famosi “trenta gloriosi”, 1945-75, della socialdemocrazia. Le politiche europee e americana erano così nettamente ispirate alla prosperità delle classi medie, al benessere generale anche dei più poveri, da fare apparire socialdemocratici, col metro di oggi, anche i partiti conservatori, i Repubblicani di Nixon o i democristiani tedeschi. Come si spiega che una forte ispirazione a combinare la libertà economica e il capitalismo con il welfare universale avesse inglobato anche politici (ed elettori) della parte avversa? Quella socialdemocratica era diventata una “narrativa egemone” perché intrecciava, in congiuntura astrale, fattori internazionali (gli Stati Uniti del piano Marshall), strutturali (il boom economico e demografico del Dopoguerra, una florida classe operaia industriale), una teoria economica (quella di John Maynard Keynes, che ha dominato tra gli economisti) e leadership politiche in piena sintonia con quanto sopra.
Nello stesso modo la “narrativa egemone” della fase neoliberale si è valsa di fattori internazionali (la fine del comunismo e la globalizzazione), strutturali (la crisi fiscale e la fine del boom), ideologici (l’egemonia di Milton Friedman e dei suoi boys) e soprattutto di leadership travolgenti, quelle della Thatcher e di Reagan. Questa “narrativa egemone” ha condizionato i suoi avversari di sinistra. Non c’era modo di far soffiare di nuovo il vento socialdemocratico, non ce ne erano più le premesse: declino e delocalizzazione dell’industria manifatturiera, frammentazione delle classi del lavoro, insuperabili limiti del carico fiscale. Quello che si poteva fare era contenere i danni fornendo una interpretazione di sinistra del paradigma neoliberale. Ed è quanto riuscito, abilmente, a Blair, Schröder e Clinton e alle esperienze consimili. Giudicando le cose con gli occhi della fase precedente è tipico dei più radicali conservatori trattare i moderati come succubi della sinistra e viceversa. Se cerchi di rovesciare il paradigma quando ne mancano le condizioni (internazionali, sociali, economiche, ideologiche) condanni il tuo partito non solo alla sconfitta ma alla marginalità e all’insignificanza.
Ora che alle travolgenti crisi finanziarie si è aggiunta la pandemia stanno cambiando alcuni dei fattori fondamentali che possono determinare l’affermarsi di una nuova “narrativa egemone”: si è di fatto imposto un ruolo preminente e indiscutibile dello Stato, ma non nella versione immaginata fino a poco fa dai sovranisti, con chiusura delle frontiere e dazi, bensì nel ruolo di propulsore degli investimenti, delle infrastrutture, con enormi necessari indebitamenti. La vittoria di Biden indica una strada simile anche all’Europa, che reagisce alla crisi attraverso un passo avanti di tipo federale con il Next Generation Eu.
Tutto questo mentre la narrativa neoliberale ha da tempo perso la presa sugli eventi e sugli elettori, finora largamente a beneficio di forze populiste. Il terreno è dunque favorevole a leader politici che sappiano innescare una nuova fase di “liberalismo inclusivo”, formula che indica libertà economica e insieme capacità di creare benessere per la maggior parte dei cittadini. Ma non sarà un ritorno ai trenta gloriosi e non basterà archiviare la supply-side theory di Friedman per sostituirla con la demand-side di Keynes. Questa volta occorre la convergenza di parecchie diverse competenze, sociologiche, storiche e ambientali per creare quella miscela di innesco capace di produrre una nuova “congiuntura astrale”, che avrà bisogno, questa volta, accanto agli Stati Uniti, di un’Europa capace di camminare come un soggetto cresciuto e capace di una sua volontà unitaria.
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