Che brutto clima!

 

Da martedì 28 settembre quattrocento ragazzi di duecento Paesi discutono a Milano di cambiamenti ambientali. Le loro idee arriveranno, due giorni dopo, sul tavolo della Pre-Cop26, sempre a Mi-lano, e poi su quello della Cop26, dal 31 ottobre a Glasgow. Sono appunta-menti decisivi per i destini della Terra, la sua salute e la nostra, animali e piante, aria e mari.

«La Lettura» ha chiesto

a un romanziere esperto di clima e a un esperto

di innovazione appassionato di politica

le loro sensazioni.

 

 

di Mathaniel Rich

Sto scrivendo dal futuro, cioè da New Orleans, Louisiana. Anche se questa città tende a essere immaginata al passato, una città immersa nelle sue antiche tradizioni, culture e fantasmi, quelli di noi che abitano qui sopportano quotidianamente quel che il resto del mondo sperimenterà presto. Nessuno a New Orleans ha bisogno di fare ipotesi sul futuro del cambiamento climatico. Ci siamo già dentro.

Scrivo quasi tre settimane dopo che la tarantella dell’uragano Ida si è abbattuta sul sud-est della Louisiana, rendendo inabitabili dozzine di comunità costiere; alcune in modo permanente. New Orleans è stata relativamente risparmiata, anche se per un breve periodo s’è vista catapultata nelle condizioni socio-economiche di un villaggio sperduto del mondo in via di sviluppo. La città è rimasta senza elettricità per una settimana. Ci hanno assicurato che l’acqua era potabile, ma ci hanno anche consigliato di non tirare lo sciacquone più del «necessario» (i liquami che entravano nelle fognature venivano scaricati direttamente nel Mississippi e nelle delicate zone umide poco al di fuori della città). Due settimane e mezzo dopo la tempesta, la notte prima della riapertura della maggior parte delle scuole, un’altra tempesta tropicale le ha costrette a rimanere chiuse. Lungo le strade sono ancora ammucchiati sacchi della spazzatura e detriti, una situazione che minaccia di dare luogo a rivolte e, nella tradizione di New Orleans, a manifestazioni in forma di «parate della spazzatura». È improbabile che il problema venga risolto nel prossimo futuro: in preda allo sconforto, il sindaco ha chiesto ai residenti di portare loro stessi i rifiuti alla discarica.

Eppure New Orleans, dobbiamo ricordarlo, è stata fortunata. È il centro della ricchezza della regione, ed è stata rafforzata con un sofisticato sistema (costato 14,5 miliardi di dollari) di barriere, argini e muri antiallagamento, così giganteschi da essere visibili persino dalla Stazione spaziale internazionale. In altre parole, gli abitanti di New Orleans vivono come vivranno gli abitanti di molte città ricche delle nazioni più ricche del mondo nel clima più caldo del futuro: sopportiamo disagi frequenti, a volte debilitanti, con costi e fastidi; ma sopravviviamo e li raccontiamo (e manifestiamo in parata). Quelli che si trovano al di fuori delle barriere anti-inondazione, indifesi contro la furia crescente del riscaldamento dei tropici, sono stati ricacciati nel Medioevo.

Alla fine di ottobre, le Nazioni Unite convocheranno a Glasgow la ventiseiesima conferenza annuale sui cambiamenti climatici, l’ultima di una serie di conferenze, incontri, congressi e vertici tenuti, sotto vari auspici e acronimi, dalla fine degli anni 80 del Novecento in poi. La qualità di questo rituale annuale è andata regredendo. Le proposte più ambiziose erano state infatti presentate all’inizio. Erano contenute nelle prime bozze di quello che originariamente doveva essere un trattato globale per porre fine alle emissioni di gas serra. Anche se quel piano era stato acclamato quasi unanimemente dalla comunità internazionale, e negli Stati Uniti aveva avuto un sostegno maggioritario, è poi fallito in occasione di una conferenza diplomatica convocata nel 1989 dalle Nazioni Unite nei Paesi Bassi, quando gli Stati Uniti hanno improvvisamente ritirato il loro sostegno — una storia che racconto dettagliatamente nel mio libro Perdere la Terra (Mondadori, 2019).

Dal giorno in cui quella conferenza s’è chiusa, nell’atmosfera è stata rilasciata più anidride carbonica che in tutta la storia precedente dell’umanità. Tuttavia gli obiettivi fissati in queste conferenze sul clima sono diventati sempre più incerti. I mandati sono stati derubricati a semplici linee guida, le promesse a possibilità, i parametri di riferimento si sono ammorbiditi e i meccanismi per imputare le responsabilità sono stati buttati a mare, per cui la maggior parte delle nazioni è rimasta parecchio al di sotto delle proprie modeste e inapplicabili promesse.

Un nuovo rapporto dell’Onu ha verificato che anche se ogni Paese del mondo dovesse rispettare le sue attuali promesse sulle emissioni, raggiungeremo il catastrofico riscaldamento climatico di +2,7 gradi entro la fine del secolo.

La conferenza dello scorso anno è stata rinviata a causa della pandemia di Covid, un periodo di grande preoccupazione globale, che però ha offerto a chi ha a cuore la futura abitabilità del pianeta un momento di cauto ottimismo. I lockdown hanno portato a un improvviso calo delle emissioni di carbonio, il primo del genere nella storia recente. Una volta riprese le attività, le emissioni sono risalite bruscamente, come a recuperare il tempo perso. La pausa forzata dalla vita come la conoscevamo, questo periodo di riflessione e rivalutazione, ci ha comunque permesso di prefigurare una realtà alternativa. Nel marzo del 2020 il ricercatore italiano Emanuele Massetti ha notato con meraviglia che il lockdown aveva reso «l’aria nel nord Italia pulita come mai prima». Su Delhi il cielo era blu, a Pechino gli uccelli cantavano e a Los Angeles si registrava il più basso livello di inquinamento atmosferico degli ultimi decenni, fin quando, in estate, la California è stata funestata dalla peggiore stagione di incendi della sua storia.

Ci siamo spesso chiesti se questa breve tregua, questo assaggio di un altro percorso, possa cambiare l’atteggiamento del pubblico nei confronti del cambiamento climatico. Ci si potrebbe aspettare, almeno, che si sia acquisita un’acuta consapevolezza dell’interconnessione della vita sulla Terra. Quel che viene venduto in un mercato umido a Wuhan ha riflessi alle soglie di un condominio di Palermo o di un quartiere di Nairobi. La nostra vulnerabilità al cambiamento climatico è sempre più profonda: l’offesa delle emissioni di gas serra sull’atmosfera globale non cambia proporzioni se il fumo sale da una ciminiera di San Paolo, Shanghai o Sesto San Giovanni.

Una previsione: il Covid cambierà l’opinione a proposito del clima non più di quanto l’epidemia di Spagnola del 1918 l’abbia cambiata riguardo ai rischi di guerre mondiali. Ma non dev’essere necessariamente così. È già in corso un profondo cambiamento. Lo si vede negli Stati Uniti, il Paese che ha più responsabilità per questo terribile problema. Il presidente Biden ha messo il clima in cima alle priorità della sua amministrazione, adottando una linea molto più aggressiva rispetto a quella presa durante il suo mandato come vicepresidente di Obama. Molte proposte più ambiziose di Biden derivano dai piani formulati dai giovani attivisti che hanno contribuito a dare il massimo rilievo alla politica climatica tra gli elettori del Partito Democratico. Solo tre anni fa questo sembrava impensabile, ma riflette un movimento globale alimentato da indignazione, sofferenza e paura.

La pressione politica esercitata dai giovani attivisti ha portato a un evento autonomo, che si terrà il 28 settembre a Milano, poco prima della Cop26. I giovani partecipanti arriveranno da tutto il mondo, ma possiamo immaginare che vengano dal futuro: vittime del cambiamento climatico in cerca di vendetta su politici, corporazioni e sclerotiche burocrazie internazionali che hanno tradito la civiltà moderna.

Il problema del cambiamento climatico esiste da più di un secolo e continuerà a esserci nel prossimo futuro umano (e post-umano). La discussione pubblica sull’argomento, in particolare negli Stati Uniti, tende però a essere contrassegnata da toni di sorpresa indignazione, come se fosse un oltraggio recente. Anche se sono decenni che sappiamo che ci saranno inondazioni, siccità e incendi, ogni nuovo disastro evoca lo stesso ottuso senso di incredulità. Perché siamo rimasti bloccati? Quando passeremo dallo choc all’azione?

È in corso una trasformazione, ma quanto sia grande, rapida ed efficace è incerto. Ogni successo richiederà il superamento di enormi opposizioni — da parte delle lobby dei combustibili fossili, dei politici incapaci di vedere oltre le prossime elezioni e di un pubblico intimorito che non vuole affrontare la portata della minaccia o le soluzioni necessarie. Se dovessimo fallire, non sarebbe solo un fallimento della politica. Sarebbe anche un fallimento dell’immaginazione.

Gli attivisti che stanno già arrivando a Milano non avranno difficoltà a immaginare cosa significherà per la loro vita qualche altro decennio di inazione, così come gli abitanti di New Orleans non hanno bisogno di aiuto per immaginare cosa potrebbe portare la prossima tempesta tropicale. Gli scienziati ci dicono che se New Orleans dovesse sopravvivere a questo secolo l’innalzamento del livello del mare la staccherà dalla costa e la muterà in una sorta di isola, sperduta nel Golfo del Messico. Per quanto inquietante, questa immagine rappresenta lo scenario migliore. Vorrebbe dire che ci sarebbe risparmiata la sorte del resto della Louisiana meridionale, semplicemente inghiottita dal Golfo del Messico. È difficile immaginare questo destino, ma non più di quanto lo sia accettare che gli abitanti di New Orleans siano, ancora una volta, quelli fortunati.

(traduzione di Maria Sepa)

 

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