George Orwell non poteva capirlo. Quello scrittore aveva un piglio troppo sintetico, rapinoso, optava per un verbo intriso di ferocia, d’ironia caustica, scandalosa; mescolava il lirico all’osceno, la vertigine al gergo popolare. “È un libro a cui prestare attenzione”, scriveva Orwell, perché “è sostanzialmente uno studio sul Meccanismo” – cioè, sulla tecnica come ghigliottina – e sugli “scopi impliciti della civiltà industriale”, scriveva, riferendosi a Noi, il capolavoro di Evgenij Zamjatin, il romanzo che ne ha previsti decine di altri, aurorale, totalmente contemporaneo (devoti a Noi, tra gli altri, vanno annoverati Aldous Huxley, Kurt Vonnegut, Tom Wolfe, Philip K. Dick…). Troppo english, Orwell non capiva il metodo narrativo di Zamjatin: quel romanzo, sottolineò, “ha una trama piuttosto debole ed episodica”. Col senno dei decenni, Noi si legge con più gusto di 1984: ha l’esattezza micidiale – propria delle opere rare – della profezia. Zamjatin, infatti, anticipa, ideando un mondo distante, l’era della statistica, l’epoca della sorveglianza di massa, l’uomo ridotto a numero, l’etica dello Stato-Dio, le fisime del totalitarismo, le esecuzioni pubbliche per il bene di tutti, l’impero dei buoni e dei giusti giustizialisti, il sesso meccanico, le sorti degli intellettuali di regime e dei poeti lacchè.
“I nostri poeti non aleggiano più tra gli empirei: sono discesi in terra; vanno di pari passo con noi al suono severo e meccanico della marcia della Fabbrica della Musica; la loro lira – è il fruscio al mattino degli spazzolini da denti elettrici, e il minaccioso crepitio di scintille nel Meccanismo del Benefattore, e la eco maestosa dell’Inno alla gloria dello Stato Unico… I nostri dèi – sono qui, sotto, con noi – in Ufficio, in cucina, in laboratorio, al gabinetto; gli dèi sono divenuti come noi: ergo – noi siamo divenuti come gli dèi”.
Orwell pubblicò la recensione a Noi, “Libertà e felicità” – segno, infine, di una fratellanza – nel 1946. Zamjatin era morto nove anni prima, a Parigi, povero di patria, di soldi, di amici. Quello stesso anno Ettore Lo Gatto scrive, in una nota per l’Enciclopedia Italiana, che Zamjatin, “scrittore originale di contenuto e di stile tra il raffinato e il popolare… non aveva ancora dato piena espressione delle sue grandi possibilità artistiche”. Era in anticipo su tutto, come sempre, Zamjatin; soltanto ora ne apprezziamo la propulsione romanzesca, il genio linguistico. Negli Oscar Mondadori, per la cura di Alessandro Niero, sono usciti i Racconti (2021) di Zamjatin e Noi (2020). L’editore Fanucci ha da poco pubblicato una nuova traduzione di Noi, curata da Alessandro Cifariello, che ho invitato al dialogo. Noi compie un secolo: Zamjatin lo sgrossa nel 1921, ma il romanzo non viene edito in patria. Dal 1924, la sua fama – che precorre quella di Boris Pasternak – esplode all’estero: prima nel mondo inglese; poi, nel 1927, è tradotto in ceco, per interesse di Roman Jakobson; nel 1929 è pubblico in Francia, per Gallimard, nella traduzione di Cauvet-Duhamel. Così è troppo. Zamjatin è impaniato nell’orda di attacchi contro gli scrittori non allineati; Maksim Gork’ij intercede per lui, Stalin gli permette, nel 1931, di andare all’estero. Per Zamjatin – russo fino al midollo, euforico della Rivoluzione –, che credeva in una soluzione temporanea, non ne sortì nulla di buono. Nel 1921, in un celebre articolo intitolato “Ho paura”, aveva messo in guardia contro i fautori dell’arte di Stato, quelli che sottomettono l’estro al potere: “Una letteratura autentica può esserci soltanto là dove a farla non sono funzionari coscienziosi e benpensanti, ma folli, eremiti, eretici, sognatori, ribelli, scettici”. In forma feroce e forse ineluttabile, vita e scrittura, estetica ed esistenza, finirono, sul corpo di Zamjatin, per coincidere. Tragicamente.
Noi. Un secolo dopo, che tipo di ‘attualità’ ha ancora quel romanzo? Quanto ad attualità letteraria, non c’è quasi dubbio: è più bello di 1984… Ma faccio dire a lei.
Come Čechov, che – nei suoi migliori racconti – non dava soluzioni, ma si limitava a fotografare il problema, allo stesso modo Zamjatin, che annovera Čechov tra i suoi autori preferiti, espone un problema, ma non fornisce soluzioni. Noi, al pari dei racconti di Čechov, è un capolavoro della letteratura russa senza tempo. Sarà il lettore a individuare in un determinato momento storico la soluzione più idonea al problema. Io mi permettono di formulare la mia personale – possibile – analisi del capolavoro di Zamjatin – il più sottovalutato tra i grandi capolavori della letteratura russa del Novecento. Ma anche in questo caso risolvere il problema in modo accettabile rimane compito del lettore.
Nell’osservare la realtà finzionale di Noi dalla finestra temporale del centenario dalla sua composizione, è possibile scorgere quanto poi sarebbe avvenuto nella realtà storica della Russia e del mondo intero: la contrapposizione continua e costante tra i diritti del singolo individuo e quelli della collettività nelle scelte di governo dei vari regimi che si sono succeduti. Tuttavia l’opera di Zamjatin non si limita alla produzione di un contenuto – dipingere un futuro distopico piuttosto ben definito – ma si sofferma sulla forma, creando un intreccio e un’espressione peculiari di un determinato ambiente linguistico, in cui quel futuro distopico si realizza. Esperimento artistico preparatorio è stato infatti un testo come Gli isolani (1917), contraddistinto, secondo il ‘Serapionide’ Lev Lunc, da “uno stile incomparabile, filigranato, che gira attorno a un perno di paglia”, che “spara cannonate ai passerotti” (si veda per questa e le successive citazioni di Lunc il volume I fratelli di Serapione, 1967). Inoltre, altro esperimento artistico preparatorio è stato Il pescatore d’uomini (1918; Gli isolani e Il pescatore d’uomini possono essere letti nella bella traduzione di Alessandro Niero) che assieme a Gli isolani condivide con Noi non soltanto immagini, ma anche e soprattutto la funzione di monito contro l’obbligo coatto di attenersi a norme politiche e di comportamento, sociale e individuale, ben definite e limitanti. Certo, con Noi Zamjatin va oltre: produce, infatti, un’opera che “non può far meno di esistere”, che non è copia della natura, ma vive “alla pari con la natura” attraverso l’espressività della sua forma linguistica. In un contesto dove qualunque contenuto è riscontrabile nelle opere del passato, la novità di Zamjatin – e in ciò possiamo rinvenire l’attualità – è infatti, a mio parere, proprio la voce del suo eroe, D-503. È il protagonista stesso a narrare per iscritto in prima persona gli eventi cui assiste – l’autore sfrutta infatti il genere dei zapiski, ‘memorie’, ‘ricordi’, ‘diario’. Proprio un’attenta analisi della forma espressiva in D-503 – che è poi quella dello Stato Unico – permette di ritrovare alcune strette correlazioni tra l’opera di Zamjatin e il nostro mondo. Basti pensare alla scelta autoriale di denominare con lettere e numeri i personaggi del romanzo, dovuta non tanto a un’idea premonitrice di un futuro distopico, quanto all’associazione e alla rilettura dei sanguinosi eventi (vissuti in prima persona) tratti dal recente passato – la Guerra più grande del mondo – e dalla storia di allora – la Guerra civile tra bianchi e rossi in seguito alla Rivoluzione più grande di sempre. E così la persona, perduto lo status d’individuo dotato d’una storia personale, si è trasformata in ‘numer’ – prestito linguistico a indicare una matricola (linguaggio bellico) a cui, dopo la Guerra dei Duecento Anni, è stata tolta la propria individualità in nome di un ipotetico bene collettivo. Motivo per cui l’autore rimuove inizialmente dal testo l’individualità dell’‘io’ in favore di un collettivo ‘noi’ – soggetto del nuovo genere distopico – che nel corso del testo andrà a confliggere con i segni inconfondibili dell’umanità in potenza insita in ogni matricola, ossia l’emergere delle peculiarità incancellabili e inalienabili del singolo.
…insomma, l’individuo ridotto a numero… insomma, il nostro mondo: crediamo di avere una spiccata ‘personalità’, ma siamo cifre nell’era della statistica.
Proprio così. Nell’attualità del mondo moderno ognuno di noi è portatore di codici alfanumerici – siamo tutti individuabili non soltanto da un nome e un cognome – che può essere anche oggetto di omonimia –, ma da un univoco codice fiscale, da uno o più indirizzi di posta elettronica (che necessitano di univoche login e password), da uno o più profili social, da un account Skype e/o da un numero telefonico/Whatsapp, ecc. In Noi l’incarico di controllare le matricole è affidato ai Custodi (le matricole S, le spie), che operano non solo sulla superficie, ma anche dall’alto, sfruttando il volo basso e lento di aeromacchine in cui è montato uno dei più efficaci dispositivi di sorveglianza: le “nere proboscidi abbassate dei periscopi di sorveglianza” (sto citando dalla mia traduzione). L’azione profilattica dei Custodi è come quella di un dottore: “inizia le cure a una persona quand’è ancora sana, a una che si ammalerà solo dopo uno-due giorni, al più una settimana” (quest’affermazione anticipa la funzione profilattica dei Precog di Philip K. Dick di oltre trent’anni). Mutatis mutandis, profilassi simile si attua oggi grazie all’uso di programmi di vario tipo che, eludendo la privacy individuale, permettono il tracciamento, la conservazione e l’analisi di comunicazioni e dati differenti di ogni cittadino (tracciamenti telefonici, posta elettronica, social media, telecamere con riconoscimento facciale, intelligenze artificiali con riconoscimento vocale, scansione della retina, impronte digitali, ecc.). E sia nel romanzo che nella storia del Novecento e del primo ventennio del terzo millennio – si tratta non di un giudizio di merito ma di un puro dato di fatto – lo scontro tra libertà individuale e sicurezza collettiva vede spesso il prevalere di quest’ultima sulla prima. Si prenda a esempio il “ChatControl” – la sorveglianza di massa delle comunicazioni digitali – che sta per essere ratificato dall’Unione Europea: allo scopo – giustissimo – di contrastare i reati online sui minori, per tre anni i cittadini comunitari perdono il diritto alla riservatezza delle comunicazioni digitali personali, sancito in precedenza nel 2002 dalla Direttiva ePrivacy. Dati sensibili che in potenza potrebbero essere utilizzati da terze parti per terzi fini – da semplici profilazioni commerciali a preferenze politiche, per dirne un paio. Dunque, senza saperlo il romanzo di Zamjatin, attraverso una forma innovativa e un contenuto dirompente, anticipa profeticamente le difficoltà del mondo contemporaneo di preservare la libertà individuale a scapito della sicurezza del collettivo – l’intera società.
Che valore ha la scrittura nel sistema concentrazionario ideato da Zamjatin? Che ruolo ha la ‘tecnica’, la meccanica, le sorti umane e progressive in quel sistema?
A mio pare Zamjatin dipinge qualcosa di difforme rispetto a un sistema concentrazionario. Il sistema concentrazionario, nel senso moderno del termine, è infatti relativo alla vita e all’organizzazione dei campi di concentramento e di sterminio. D’altronde, esempi del passato che per l’autore potrebbero assurgere a modello riguardano i campi di lavoro dell’Impero zarista, mentre il sistema GULag sarà approntato ufficialmente solo dopo un decennio dalla scrittura di Noi: il 25 aprile 1930. Sul piano del contenuto non sono assimilabili al romanzo di Zamjatin le due opere emblematiche del sistema della katorga, ossia la deportazione nelle colonie penali della Siberia e dell’Estremo Oriente dell’Impero Russo: Memorie dalla Casa dei morti di Fёdor Dostoevskij e L’isola di Sachalin di Anton Čechov. Sono altrettanto non assimilabili le opere successive più rappresentative del sistema concentrazionario sovietico: Una giornata di Ivan Denisovič (finzione) e Arcipelago Gulag (realtà) di Aleksandr Solženicyn e I racconti di Kolyma di Varlam Šalamov. D’altronde, lo stesso Solženicyn quasi venticinque anni fa, sulle pagine di Novyj mir (10, 1997), in un bellissimo articolo su Zamjatin – di cui era appassionato cultore – , non cita affatto Noi in relazione al sistema concentrazionario, mentre celebra il romanzo non tanto per il valore profetico riguardo all’evoluzione del neonato sistema statale (Zamjatin – scrive – vede il futuro remoto già nel 1920), quanto e soprattutto per la potenza espressiva della lingua (lessico, sintassi, combinabilità semantica, ecc.) del suo autore, che analizza nel dettaglio. Sulla storia e la narrativa concentrazionaria del sistema GULag, la lagernaja literatura, ha lavorato moltissimo il collega Andrea Gullotta, appena eletto presidente di Memorial Italia. Nella letteratura di finzione Noi costituisce il tentativo di creare un nuovo genere contrapposto a quello utopico – in russo ‘antiutopia’ e in Italiano ‘distopia’: nella narrazione utopica l’autore rappresenta la società ideale in un futuro ideale; al contrario, nella narrazione distopica l’autore mette in guarda il lettore dal pericolo insito nella realizzazione ed evoluzione futura di progetti utopici. Al pari di Čechov, come detto, in Noi Zamjatin fotografa un problema senza fornire soluzioni: dipinge l’organizzazione di un regime totalitario dove le libertà sono limitate da leggi e norme ben definite dallo Stato Unico. Nel corso della giornata, infatti, sono gli orari – regolamentati da quelle leggi e quelle norme – a scandire la vita dell’uomo al fine di rendere efficace e massimizzare il processo produttivo ed eliminare definitivamente le perdite di tempo. E poi si assiste all’applicazione delle idee di Ford che, ispiratosi a Taylor, innova la catena di montaggio per incrementare la produttività della fabbrica – la produzione di massa –, limitare le spese e aumentare i profitti. In una società simile persino la morte è vista come un evento esterno, subordinato esso stesso alla produzione. Medesima domanda è posta in maniera retorica da D-503 al lettore: “vi è mai capitato di aver fede… nella sensazione che un giorno le dita che ora stanno reggendo proprio questa pagina, saranno ingiallite, glaciali…”. Secondo D-503 il lettore non ha fede, poiché pur sapendo dell’ineluttabilità della morte continua a mangiare, a voltar pagina, a radersi la barba, a far sorrisi e a scrivere. Neppure la morte è capace di fermare l’attività dell’uomo, e con essa la produzione, in cambio della felicità personale. Zamjatin sta descrivendo più un mondo simile a quello di un film come Metropolis – di poco successivo al romanzo – rispetto a quanto rappresentato in un classico testo di lagernaja literatura.
La matricola, di cui si è detto in precedenza, è l’elemento inconfondibile che può rimandare a un sistema concentrazionario: indica, infatti, la perdita dello status individuale e in qualche modo preconizza l’uso nel sistema GULag di apporre in diversi punti del vestiario del condannato numeri di riconoscimento. In una conversazione con Gullotta proprio sulla questione del sistema concentrazionario in Zamjatin è emersa la possibilità di osservare – molto alla lontana – un elemento che potrebbe accomunare l’opera dell’ingegnere D-503 – la costruzione dell’Integrale – a quella degli ingegneri e architetti che sono costretti a operare, nel futuro post-rivoluzionario – per l’edificazione del paese nuovo, la realizzazione del radioso avvenire, proprio nel sistema repressivo del GULag: indicativa è la presenza improvvisa e peculiare di figure professionali come ingegneri e architetti tra i deportati nei campi di lavoro. In particolare è possibile seguire quest’attività produttiva dei campi di lavoro nella costruzione della grande opera del BBK – il Belomorkanal, il canale che unisce il Mar Bianco al Mar Baltico. Su questo è piuttosto esplicita la monografia di Gullotta – Intellectual Life and Literature at Solovki 1923-1930. The Paris of the Northern Concentration Camps (2018) –, soprattutto la parte inerente alla costituzione del sistema concentrazionario dei campi di lavoro del BBK (pp. 45-58).
In un primo tempo, Zamjatin è un ‘rivoluzionario’, poi vede nella Rivoluzione un tradimento, e ne critica i cardini e i criteri: è così? In che misura questa esperienza precipita in Noi?
Si deve innanzitutto distinguere il Zamjatin uomo dal Zamjatin artista. Afferma Zamjatin che in arte non esistono rivoluzioni: nel campo dell’arte domina l’evoluzione. Le nuove conquiste dell’arte, in realtà, non sono altro che l’evoluzione artistica di quanto in precedenza accumulato: in arte nulla si distrugge, ma tutto si trasforma. Invece la rivoluzione nell’esistenza umana, secondo Zamjatin, serve a – ha lo scopo indissolubile di – produrre nella società la felicità delle masse. Pur credendo nella rivoluzione, Zamjatin ha una visione duplice e contraddittoria della felicità, che gli spacca letteralmente la coscienza – e ciò si riflette ampiamente in Noi: lo scontro tra diritto della felicità delle masse attraverso la rivoluzione e necessità del singolo individuo di godere della felicità personale. Nella prefazione per una prima edizione russa mai realizzata di Noi sulla rivista Osnova Zamjatin scrive che le insurrezioni, le rivoluzioni – che sono energia – sono necessarie come i temporali. Noi narra ciò che secondo Zamjatin avviene dopo l’era delle rivoluzioni: è il racconto della terribile, ineluttabile, era entropica – un periodo temporale infinitamente lontano dai giorni tempestosi in cui l’autore vive e scrive. Ricorda Darko Suvin che per Zamjatin la rivoluzione rappresenta l’energia – l’“indiscutibile splendente principio di vita e di movimento”, che si contrappone all’entropia – il “principio di male dogmatico e di morte”. Zamjatin scrive che dopo che lo stato, nei ‘secoli’, sarà diventato granitico, “ci sarà brava gente col desiderio, rimanendo nel vagone dormiente dell’evoluzione, di giungere a un ordinamento territoriale senza stato”. A questo nuovo desiderio di tempesta lo stato opporrà resistenza – “e di nuovo fulmini, tempeste, incendi”. Con un calembour tutto russo l’autore definisce “la legge che con la ‘r’ di temporale guarnisce in eterno la dolce ‘evoluzione’”: dunque dalla ‘ėvoljucija’ (evoluzione) si genera la tempesta della ‘revoljucija’ (rivoluzione). Il problema non è, dunque, la rivoluzione in sé, ma la questione legata alla costruzione di uno stato post-rivoluzionario in cui si abbandoni il principio della rivoluzione in favore del dogma dell’entropia: per la costituzione di uno stato granitico, leggi e norme statali limitano le libertà dei singoli individui per il bene della collettività. Zamjatin sta qui ricodificando apertamente materiale letterario pregresso – pura evoluzione-rivoluzione letteraria dell’idea espressa, ad esempio, nelle Memorie dal sottosuolo del suo amato Dostoevskij: in Noi si osserva l’annullamento della volontà individuale in un contesto programmatico di organizzazione sociale collettiva – una società massificata in cui l’individuo perde il diritto alla natura, all’istinto, alla fantasia, e persino al libero arbitrio. Su questo punto mi pare adeguata l’affermazione di Riccardo Donati in Critica della trasparenza (2016), nella parte dedicata alla ‘fabbrica trasparente’, quando scrive che “l’ingiunzione al summum bonum, … per quanto benintenzionata possa essere, è tanto oppressiva quanto ogni altra forma di dispotismo” (p. 57). Il libero arbitrio – componente naturale dell’individualità umana – non è nemmeno contemplato, ad esempio, nelle scelte dei rapporti amorosi. La “Lex sexualis” è infatti nel futuro distopico di Noi l’evoluzione – portata da Zamjatin all’estremo – delle idee di Aleksandra Kollontaj, commissario del popolo che nei primi anni post-rivoluzionari si batteva per la liberazione fisica e sociale della donna, e propagandava una nuova morale basata su un nuovo modello di relazioni sessuali, un vero e proprio nuovo codice sessuale parte integrante dell’ideologia di classe. Riguardo alle relazioni sessuali della classe operaia Kollontaj scriveva infatti che “una maggiore fluidità e una minore solidità delle relazioni sessuali” – il cosiddetto poliamore – erano i principali obiettivi che quella classe doveva realizzare (in Sem’ja i kommunističeskoe gosudarstvo, 1920, p. 59). Oltre all’estremizzazione del concetto di ‘poliamore’, in Noi si compie la subordinazione dei concetti di maternità e famiglia agli ideali dello Stato Unico – che in Kollontaj corrispondeva alla Russia comunista: al posto di un amore ‘limitato’ alla propria prole, scriveva la Kollontaj, la madre-operaia doveva occuparsi della crescita dei figli della collettività, senza più distinzioni tra proprio e altrui (in Sem’ja i kommunističeskoe gosudarstvo, p. 22). La città dello Stato Unico rappresenta, dunque, il luogo delle leggi e degli ideali – innaturali, razionali, utopici – di quello Stato, ed è perciò delimitata da un muro di vetro che permette di scorgere, separandola, il verde mondo della natura al di fuori di essa. Infrangere il vetro vuol dire allora rinunciare all’artefatta perfezione del mondo artificiale di ‘noi’ – dove l’errore non è contemplato, ovunque domina la felicità collettiva e tutto abbonda per soddisfare le necessità materiali della società – per tornare al libero arbitrio – imperfetto, impreciso, irregolare, naturale – dell’‘io’ individuale.
Zamjatin non sembra a suo agio tra i russi in esilio a Parigi: come mai?
Nonostante Zamjatin abbandoni de facto la patria, alla base della sua partenza sono poste motivazioni non sono assimilabili a quelle dell’emigrazione russa. Nel 1929, a seguito di una campagna denigratoria che lo colpisce (assieme a Boris Pil’njak), interviene in sua difesa Maksim Gor’kij, che solo nel 1931 riesce a fargli ottenere il passaporto. Nel frattempo Zamjatin scrive a Stalin con la richiesta di partire per l’estero per un periodo limitato di tempo – un anno – perché – sostiene – gli è ormai preclusa ogni possibilità di lavorare in patria. Ottenuto in modo perfettamente legale il permesso di un anno, non trancia definitivamente i legami con la madrepatria, anche se nei fatti non rimetterà più piede in Unione Sovietica, inserendosi alla fine nella vita culturale francese – anche se spesso visto dai compatrioti dell’emigrazione con sospetto – Zamjatin è un ‘eretico’. Questo fatto certamente determina in lui una sorta di autoisolamento protettivo. Zamjatin spera sempre e comunque di ritornare in patria. Questo fatto è riportato a lettere cubitali nelle memorie di Nina Berberova, che ne Il corsivo è mio (del 1969, tradotto e pubblicato in italiano nel 1989 per i tipi di Adelphi) sottolinea quanto Zamjatin frequentasse un numero estremamente esiguo di suoi compatrioti, non ritenendosi un emigrato, anzi aspettando costantemente la prima occasione possibile per tornare in Russia – e come Berberova evidenzia, intanto soprassedeva e si acquattava in attesa di vivere in seguito in patria. Come sappiamo, le sue speranze rimarranno deluse: nel 1937 Zamjatin muore, drammaticamente povero, a Parigi, con accanto pochissimi amici.
Anticlericale, antipolitico: in cosa crede Zamjatin? E qual è il ‘genio’ della sua scrittura, la sua caratteristica?
Se, come ha scritto Zamjatin, nell’arte domina l’evoluzione, la novità di Zamjatin è proprio l’evoluzione del materiale artistico del passato attraverso una nuova personalissima forma d’espressione. Noi, infatti, è un continuo rimando, una continua citazione di opere e autori coevi e del passato. Se si prende l’edizione critica del romanzo pubblicata nel 2011 che riproduce il testo del dattiloscritto originale – che differisce in modo sostanziale dalle precedenti edizioni russe e su cui si basa la mia traduzione per Fanucci –, si possono contare ben 287 note in cui compaiono testi e autori citati dall’autore in grandissima quantità – dalle cosiddette ‘espressioni alate’ del russo a interi rimaneggiamenti di brani celebri (si pensi, su tutti, al Grande Inquisitore di Dostoevskij). L’opera di Zamjatin può essere definita un ‘metaromanzo’ il cui scopo è la rinascita della letteratura e del suo linguaggio, dove lingua e forma diventano elementi distintivi del ‘genio’ del loro autore. Più che per il contenuto distopico – certamente dirompente se letto a posteriori – sono lo stile, i procedimenti stilistici, la sapienza dell’intreccio, a lasciare letteralmente senza parole. Stile, procedimenti, intreccio che si fanno a loro volta contenuto e permettono di decodificare un sottotesto ancor più complesso di quanto si sia portati a credere. Si prenda ad esempio la figura del poeta R-13. Nella mia introduzione spiego come fonetica e skaz testopoietico permettano di definire R-13 sintesi fisico-fonetica dei poeti del passato e del presente, caricatura allo stesso tempo di Vladimir Majakovskij e di Boris Pasternak – ma anche di Velimir Chlebnikov, ad esempio. Il poeta possiede una personalità dotata d’inalienabile creatività artistica, e per questo motivo è inconciliabile con la rigidità di uno Stato Unico che non ammette la fantasia. L’Intervento Supremo, necessario a eradicare la fantasia, è incompatibile con la creatività del poeta: attraverso l’Intervento Supremo il poeta perderebbe per sempre la capacità di comporre versi artistici, e non essendo più poeta diverrebbe un essere artificiale – un automa senza creatività. Per questo motivo l’attività poetica può essere silenziata esclusivamente dalla morte fisica del poeta: R-13 muore proprio nel corso della Rivoluzione. Zamjatin crede dunque che vero motore della poesia è l’energia della rivoluzione, mentre l’entropia sociale dello Stato Unico – ossia la Russia post-rivoluzionaria – può solo uccidere il poeta. L’autore termina di scrivere Noi nel 1921 – eppure questa visione costituisce un’ulteriore, profetica, anticipazione del destino del Majakovskij poeta di stato, e in generale del destino del poeta, incompatibile con lo Stato Unico. Il poeta, infatti, incarna allo stesso tempo le figure del rivoluzionario e dell’eretico, soggetti la cui caratteristica è l’accumulo di energia e passione necessarie a una radicale evoluzione del modo di vivere e pensare. Su questo punto Zamjatin sente e sa di essere un eretico ribelle che si rifà al prototipo degli eretici ribelli: lo scienziato Robert Mayer, padre della termodinamica, da cui l’autore riprende la definizione di entropia. Proprio nel periodo della stesura di Noi Zamjatin dedica a Mayer un racconto biografico (si veda Il destino di un eretico pubblicato nel 1988 dai tipi di Sellerio) e i concetti di Mayer riecheggiano nelle parole di I-330 (la protagonista femminile del romanzo) – che parla in nome dei Mefi: “Al mondo esistono due forze – l’entropia e l’energia. Una spinge verso la pace beata, verso l’equilibrio felice; l’altra – verso la distruzione dell’equilibrio, verso il movimento tormentosamente-senza-fine. L’entropia era venerata come Dio dai nostri – o meglio – dai vostri antenati, i cristiani. Mentre noi, gli anticristiani, noi…”. D’altro canto, per Zamjatin l’arte stessa è eresia, e ogni artista in qualità di creatore deve essere un eretico – l’unica medicina capace di superare l’entropia del pensiero umano, ossia tutto il materiale del passato – incluso la stessa religione – che, cristallizzatosi nel tempo, è divenuto dogma. L’eretico, ed è questo in fondo l’anticlericalismo e l’antipolitica in – e di – Zamjatin, è colui che rappresenta la realizzazione della predestinazione dell’individuo – e in particolare dell’artista: l’eterna rivoluzione, in nome dell’evoluzione e della perfezione dell’essere umano.