Il sesto rapporto della Commissione intergovernativa sui cambiamenti climatici dell’Onu (Ipcc) è stato lanciato mentre le ondate di calore e gli incendi devastano il pianeta dall’Amazzonia alla Siberia, dalla Grecia alla California.
Si tratta del primo dei tre volumi del sesto rapporto di valutazione, una sorta di summa delle scienze del clima pubblicata a otto anni dal rapporto precedente e a trentuno dal primo. La temperatura globale media registrata nel periodo 2010-19 risulta 1,07°C superiore a quella del periodo preindustriale mentre le concentrazioni di CO2 del 2020 sono quelle massime raggiunte negli ultimi 2 milioni di anni.
Rispetto al quinto rapporto, le evidenze della correlazione tra crisi climatica innescata dalle emissioni di gas serra e i fenomeni climatici estremi sono più forti così come il possibile crollo della corrente del Golfo giudicata solo otto anni fa «poco probabile» ora invece viene valutata con una probabilità media.
Si confermano i risultati presentati nel 2018 quando l’Ipcc aveva analizzato i diversi impatti tra uno scenario con l’aumento globale della temperatura media a 1,5°C e uno a 2°C e dunque dando un senso preciso alla formulazione degli obiettivi dell’Accordo di Parigi, di limitare «ben al di sotto dei 2°C e preferibilmente a 1,5°C» la temperatura media globale.
Per riuscirci, e dunque per evitare le conseguenze peggiori, è necessario un dimezzamento delle emissioni globali entro il 2030 e un loro azzeramento entro il 2050: ed è ancora possibile farlo, questa la buona notizia negli scenari presentati dal rapporto.
La difficoltà – e i conflitti – stanno proprio nei tempi stretti per agire. Che la transizione richieda grandi investimenti e non sia una passeggiata è certo. Ma è solo metà della storia. Non c’è infatti solo il «bagno di sangue» evocato a ogni piè sospinto dal ministro Cingolani: i nuovi settori rinnovabili sono infatti a maggior intensità di lavoro e dunque richiederanno più occupati e, semmai, in qualifiche che richiedono politiche di formazione e di riconversione dei lavoratori dei settori fossili.
Questi sono dominati da un oligopolio globale fatto di poche majors (come per petrolio e gas) e di alcuni (importanti) stati proprietari delle risorse. I nuovi settori vedono invece una pluralità di soggetti anche di dimensioni medie e piccole e una concorrenza globale nelle tecnologie che, per alcune di queste, vede avanti la Cina. La cui linea pro-carbone va bloccata offrendo di cooperare sulle tecnologie pulite: una ripresa della collaborazione europea e americana col colosso asiatico, colpito anch’esso da alluvioni distruttive in queste settimane, rimane una condizione necessaria per combattere sul serio la crisi climatica.
Se la gravità della situazione viene nuovamente certificata sul piano scientifico con nuova analisi e dati, su diverse testate il nuovo negazionismo continua a seminare dubbi sulla gravità della situazione e a suggerire che comunque il cambiamento richiesto è peggio della malattia.
Alcuni sono tra quei promotori del nucleare poi bloccato dal referendum nel 2011: i reattori francesi (e quelli nippo-americani) proposti avrebbero creato solo altrettanti «buchi neri finanziari» senza aver prodotto un solo kilowattora. Oggi corrono solerti nel gruppetto dei nuovi negazionisti in soccorso degli interessi dei «padroni del vapore» per bloccare o ritardare i cambiamenti necessari, mentre aziende come Eni cercano di intimidire la stampa con querele temerarie come è successo al Fatto Quotidiano e di recente al Domani.
Eni che insiste con obiettivi largamente inadeguati sulle rinnovabili e a promuovere «soluzioni» incerte e rischiose come stoccare la CO2 nel sottosuolo o vendere il Gpl presentato come «verde» solo perché Eni ha acquistato gli equivalenti crediti di CO2 forestali in Zambia. Operazioni cartacee di assorbimenti forestali di CO2 a copertura di emissioni certe (quelle emesse dal Gpl «verde») che potrebbero andare in fumo al prossimo incendio, come è avvenuto per i crediti di CO2 acquisiti da altre grandi multinazionali proprio con gli incendi di questi giorni. Sarebbe ora di smetterla con l’aria fritta e iniziare a fare sul serio per combattere la crisi climatica.
* Direttore Greenpeace Italia