Un “uomo in blu” che incarna tutte le contraddizioni di un Paese “tanto centrale nella crisi dell’Occidente” Ritratto fuori dagli schemi dello scrittore di “Serotonina” che questa sera è ospite della Milanesiana
di Aurelio Picca
A Parigi, qualche settimana fa, la figura di Houellebecq, alta all’incirca un metro e sessantotto per meno di settanta chili di peso, mi si è appena profilata sulla retina. Invece, vedendo la città piegata, polverosa, con un cielo altrettanto ceruleo, alto non più di ottocento metri, ripensavo al vecchio Céline. Prendevo tragicamente sul serio il suo infierire beffardo sull’assoluta sfiducia nel genere umano.
Il lungo senna sulla riva sinistra, grazie al traffico, dal taxi mi faceva accorgere di quanto fossimo più bassi rispetto alla parte droit. E il Louvre e il Palais Royal li trovavo fatti di sabbia; come gli Champs-Élysées erano fumiganti, con l’Arco costruito di cartone. Del resto Parigi l’ho amata nella visione del 1974, quando proprio Houellebecq racconta Bruno ne Le particelle elementari .
Il Marais era fisiologicamente una isola deserta. Rue de Temple un taglio netto, ombelicale.
Il Centre Pompidou era immobile da astronave a terra; o una giostra o un circo. Solo sulla terrazza si animava sempre grazie al cielo, in una contrapposizione di nuvole urticanti. Place de Vosges era serrata, a bomboniera, non come adesso intrisa di ristorantini simili a tante lucine da albero di Natale disposte in cerchio. Immagino che Houellebecq, dopo Drieu, Radiguet, Proust, avrebbe dovuto abitare qui, ma non in questo tempo dove la crisi dell’Occidente ha fatto boccone vintage delle contraddizioni e degli estremismi degli scrittori a cavallo tra le due guerre.
Certo non alloggerebbe mai dalle parti di Sartre, descritto così attraverso gli occhi della studentessa Janine: «Poco impressionata dall’opera del filosofo, fu invece colpita dalla bruttezza della persona, una bruttezza che rasentava la menomazione…».
Vedendo le foto che ritraggono lo scrittore di Serotonina , coi capelli strinciati, le dita ingiallite dal fumo, gli abiti gettati sul corpo come portasse un lacero pigiama, la sigaretta trattenuta tra il medio e l’anulare, follemente ho riflettuto tra il passaggio che intercorre tra Balzac e Patrick Modiano: una nube di tarli che si sposta dai salotti del primo e invade quelli del secondo. Ma poi, giocando con le immagini, ho rivisto nel francese il vecchio ladro Fagin di Oliver Twist . Lo schiavista dei ragazzini ladri, così ben reso da Roman Polanski nell’omonimo film. Ma ho cancellato subito, in virtù del fatto che Houellebecq non ha nulla di inglese. Nulla della maschera civile e dell’anima pirata e barbara. È così francese. Della Francia tanto centrale nella crisi dell’Occidente. La Francia che subisce i tedeschi a Sedan ma che non perde l’attrazione per loro. La Francia occupata dai tedeschi ma che collabora a Vichy. La stessa che ghigliottina Luigi XVI e che però lascia che Napoleone si incoroni da sé. La cattolicissima e la secolarizzatrice.
La Francia che di fatto perde l’ultima guerra mondiale eppure si siede al tavolo dei vincitori, con Charles De Gaulle che si regala la bomba H. Insomma, la sublime Francia che non si vergogna di mostrare le sue viscere. Neanche Michel Houellebecq se ne vergogna.
A vederlo bene Houellebecq ha gli occhi larghi e languidi di un bimbo che fa dire: «Talvolta inforca la bici e va verso la campagna. Pedala con tutte le sue forze, si riempie i polmoni col sapore dell’eternità. L’eternità è un’eternità breve, ma lui ancora non lo sa… Anni e anni più tardi, ormai quarantenne disincantato e acido, Bruno avrebbe ripensato più volte a una particolare immagine: se stesso a quattro anni in sella al triciclo, che sfrecciava nel corridoio pedalando con tutte le forze fino al varco abbacinate del balcone. Molto probabilmente quei momenti furono il suo culmine di felicità terrestre ».
Amo Michel Houellebecq, almeno per lo specchio che fa vedere me bambino di tre anni che corro col triciclo rosso fino a sbattere tra le gambe del nonno. Non c’è stata altra felicità più grande.
La sua brutalità è garbata. Mette in gioco se stesso. È pustolato dalle somatizzazioni. Eppure egli è un fanatico dell’amore puro, del gesto puro. È un fanatico della verginità dei corpi: «Dalla quarta in poi, gli alunni potevano iscriversi al cineclub. Le proiezioni avvenivano il giovedì sera, nella sala delle feste della sezione maschile; il pubblico era misto. Una sera di dicembre, Bruno si sedette accanto a Caroline Yessayan, prima della proiezione di Nosferatu il vampiro . Verso la fine del film, dopo averci pensato su per più di un’ora, Bruno posò molto delicatamente la mano sinistra sulla coscia della sua vicina. Per qualche meraviglioso secondo (cinque? sette? Sicuramente non più di dieci) non accadde nulla. Lei non si muoveva. Un calore immenso pervase Bruno, che fu lì lì per svenire. Poi, senza dire una parola, senza collera, lei scostò la mano».
Mi andrebbe di proporre il ritratto di Michel Houellebecq attraverso queste parole affinché galleggino: Assoluto, Patriarcato, Conservazione, Deflagrazione, Fica, Pene, Somatizzazione. E poi Luce che, soprattutto in Le particelle elementari , si traduce in un colore usato in maniera persistente: il blu. Ne parlavo con Simon & Stars che si occupa di oroscopi.
Intuendo la capacità del francese di somatizzare e nuotare in una giungla di apparenti contraddizioni, ho pensato che egli fosse un pesce. Appunto un pesce che vive nel blu. Infatti Houellebecq appartiene nello zodiaco al segno dei Pesci. I pesci portano sul carico del corpo tutto il peso ingombrante degli altri segni e, ciò nonostante, pur essendo l’ultimo è anche il primo e dunque pronto a deflagrare, sciogliersi, bruciarsi nella luce.
Tornato da Parigi mi sono ricordato che nel 1974 sui gradini del Sacré Coeur, vedevo la città che si estendeva come fosse di paglia e fango. Cerulea. Mentre il suo cielo; meglio, oceano: era alto non meno di ventimila metri e era di un blu magnetico, irresistibile. Ecco, il pesce Houellebecq un giorno sparirà in quell’immensa acqua blu che pare cielo.