di Antonio Iovane
Era una festa a casa di Barbara nella sua grande casa sul Lungotevere, a Roma. Gli anni ’90 non erano ancora iniziati e io ero un adolescente famelico. Il fratello maggiore di Barbara suonava la chitarra, e tra un Battisti e un De André azzardai timidamente la mia proposta:
– Battiato?
Lo strimpellatore mi guardò beffardo.
– Ma chi, quello che parla dei dervisches tourners che girano sulle spine dorsali?
– Sì, quello – mi schermii timidamente.
Il silenzio che ne seguì era pieno di disapprovazione. Quella sera il fratello di Barbara non suonò Battiato.
Franco Battiato era una mosca bianca, nella musica italiana, impossibile associarlo a una scuola cantautorale, a una città, a una tradizione, Battiato era a sé. Quando esplode, dopo lo sperimentalismo degli anni ’70(da Fetus a L’Egitto prima delle sabbie), se ne esce con due frasi shock che spiegano molto:
A Beethoven e Sinatra preferisco l’insalata
A Vivaldi l’uva passa che mi dà più calorie
(Bandiera bianca)
A parlare, però, non è necessariamente lui, l’io narrante sembra dissolversi dietro le sue canzoni, Battiato sta raccontando le conseguenze delle rivolte giovanili degli anni ’60 e ’70 in cui il tavolo delle scale valoriali viene ribaltato. Ma chi è che parla, nelle canzoni di Battiato? Non si sa, non si sa mai, Battiato confondeva l’ascoltatore applicando il procedimento proprio del collage postmoderno: nei suoi testi convivevano io narrante e voci esterne, inserzioni di altri brani, proverbi, luoghi comuni, pubblicità. In una parola: Battiato campionava:
Le vecchie con le scope
Rincorrono i ragazzi cattivi per la strada
I telegrafi del posto
Mandano segnali incomprensibili
La donzelletta vien dalla campagna
In sul calar del sole
Che gran comodità le segretarie
Che parlano più lingue
E che felicità ci dà l’insegna luminosa
Quando siamo in cerca di benzina
Deve sentirsi imbarazzato un vigile
Nella divisa il primo giorno di lavoro
(Frammenti)Mi dia un pacchetto di Camel senza filtro e una Minerva
e una cronaca alla radio dice che una punta attacca
verticalizzando l’area di rigore,
ragazzi non giocate troppo spesso accanto agli ospedali
(Venezia-Istanbul)
Con decenni di anticipo campionava i sacri testi della cultura rock (“The end” dei Doors, il pastiche di Cuccuruccuccù), reclames, poesie, tutto, altro che Kayne West. Il citazionismo non era sfoggio di cultura, ma solo parte di un disegno artistico: campionando, Battiato raccontava la forma di un presente senza più un verso, una direzione, un centro di gravità permanente. Sì, negli anni ’80 inoltrati Battiato canta così anche la fine delle ideologie.
Non sermoneggiava, non cercava adepti, non aveva lo spirito del guru, Gurdjieff e Renè Guenon e i mistici e le danze sufi erano solo una parte costituente del suo grande collage, e quando percepiva di essere interpretato come un maestro, disinnescava quel rischio con l’ironia e il paradosso:
Ma l’animale che mi porto dentro
non mi fa vivere felice mai
si prende tutto anche il caffè
(L’animale)
Lo stesso afflato si ritrova nel suo mondo musicale, inscindibile da quello testuale. Nella sua musica si celebra lo straordinario incontro tra il sintetizzatore, che in quegli anni aveva disarmato le chitarre elettriche, e la grande tradizionale musicale classica (Temporary Road, Scalo a grado e tante altre), le potenzialità del sequencer su reminiscenze bachiane, l’elettrofono contro la polifonia. Battiato seppe, con maggiore fortuna di altri, unire anche musicalmente le categorie del colto e del pop. Solo un esempio: il ritornello, proprio della canzonetta, nei suoi brani viene con frequenza affidato a un coro, elemento proprio della musica “colta”, con un effetto straniante.
Dopo il periodo sperimentale Battiato inanellò una serie di album capitali (L’era del cinghiale bianco, Patriots, La voce del padrone, L’arca di Noè, Orizzonti perduti, il preferito di chi scrive). Poi vennero Mondi lontanissimi, l’enorme Fisiognomica e Come un cammello in una grondaia. Il successivo Café de la paix non era all’altezza dei precedenti (così come risulteranno trascurabili, a mio avviso, le cover dei vari Fleurs), e forse fu questo deficit di ispirazione a traghettarlo verso la felicissima collaborazione con il filosofo Manlio Sgalambro: sarebbe stata la sua terza vita, il motto surrealista dell’ombrello e la macchina per cucire diventava il titolo del loro primo album (altro capolavoro) rendendo bene la coniunctio oppositorum alla base della musica di Battiato che in questa occasione abbracciava la filosofia di Sgalambro.
Il filosofo spaziava trasformando in versi i propri temi, il musicista poteva seguitare a giocare col sacro e profano, con l’alto e il basso, confondendoli. Insieme agli album già citati, Battiato risultò più debole proprio quando risolse la tensione tra i due piani, per esempio nella pur apprezzabile opera Gilgamesh. Lì dove invece mantenne l’equilibrio tra i due opposti non ebbe rivali.
L’errore è quello del fratello di Barbara, cercare cioè di capire Franco Battiato quando occorre invece calarsi in quella macchina capace di fagocitare ogni cosa – gli eterni, i mullah immobili, l’odore di brillantina, Hare Krishna, Like a rolling stone, Nietzsche e Wagner, gli isotopi, il giorno della fine non ti servirà l’inglese, il mal d’Africa, l’apparente dualità, le biciclette di Shangai – restituendola plasmata. Non comprendere, ma avventurarsi.