Venezia
Ricerca e ideologia, il rapporto tra architettura e natura al centro dei padiglioni.
Pierluigi Panza
Annoiarsi non ci si annoia. La 17ª Mostra internazionale di Architettura, che apre con un anno di ritardo il 22 maggio ai Giardini e all’Arsenale di Venezia, non è una mostra di architettura, di quelle con i progetti appesi alle pareti. L’architettura non è più architettura è biologia, ingegneria, agricoltura, comunicazione…: qui potete portarci i bambini certi che si divertiranno tra i mostri biomorfi che diventano abitazioni e potete visitare i padiglioni, per ora, senza folla. Venezia è deserta mentre l’architettura che ha in mente il curatore Hashim Sarkis sembra ricalcare la definizione del 1881 di William Morris: «L’architettura rappresenta l’insieme delle modifiche e delle alterazioni operate sulla superficie terrestre, eccettuato il puro deserto». Per questo, superata la volta di ingresso affrescata da Galileo Chini — dalla quale pendono pietre di ossidiana che ci collocano in una grotta dell’antropocene — c’è un gigantesco plastico della crosta terrestre: noi ci occuperemo degli ultimi quindici chilometri di superficie di questo pianeta che ha 6.371 chilometri di raggio.
Di stanza in stanza ci si avventura in un bosco pensato da alchimisti e abitato da strani allestimenti costruiti per capire «How will we live together?» («Come vivremo insieme?», titolo della rassegna). Sono sorprendenti se non fosse per un macigno dal quale i progettisti (non solo architetti, anzi!) non riescono proprio a liberarsi: l’ideologia. Spesso la descrizione dell’artefatto, del prototipo, della messa in scena giunge a una spiegazione che tira in ballo il colonialismo, i diritti delle minoranze, il problema gender, l’inclusività e tutte le parole chiave del mainstream che sovrappongono una retorica di successo alla ricerca. In questa mostra «senza nomi» (nel senso che sono gruppi, insiemi di persone, non star), della ricerca c’è e riguarda il rapporto tra architettura e mondo naturale: si va dal recupero di un rapporto più tradizionale con la natura all’apporto di tecnologie o simulazioni sofisticate. Ma i due aspetti — quello di ricerca per un mondo ecologico e quello ideologico — viaggiano come congiunti.
Unlanded dell’italiana Giuditta Vendrame è un prototipo per utilizzare le acque dei laghi e dei mari come «connettori», ma questo perché «nessuno Stato può rivendicare la sovranità sul mare». All Purpose di tre palestinesi è uno studio sulle volte di materiale povero come archetipo dell’architettura; poi Elias Anastas spiega che questa sua opera «sfida l’approccio imperiale nella trasmissione della conoscenza». Visto come vanno le cose in questi giorni, la sezione Linking the Levant (e anche quella intitolata Borderlines) ci pone proprio nel cuore politico della mostra con le immagini di una fattoria al confine della striscia di Gaza (gruppo FAST, composto anche da palestinesi e israeliani): i pomodori e il grano di Qudaih diventano il simbolo della resilienza alle bombe. Commenta Sarkis: «Cerchiamo la responsabilità per un futuro di ottimismo. Il green e l’inclusività sono le chiavi del futuro prossimo». La resilienza è anche rappresentata da un pavimento che riproduce Venezia e si sgretola mentre ci cammini sopra (Servizio modificato di Bisà e associati) e dall’albero del chinino, «grido contro lo sfruttamento e l’eliminazione delle popolazioni indigene». Resurrecting the sublime è, invece, una teca con un fiore «distrutto dalle attività coloniali»: l’Hibiscadelphus Wilderianus rock.
Se alcune di queste installazioni sembrano armare la Cancel culture altre sono suggestive: Geoscope 2 worlds riparte dal progetto di cupola geodetica di Fuller e gioca con un caleidoscopio di visioni e con umani (i progettisti) vestiti da astronauti mentre Antartic resolution richiama con un gong che stordisce all’importanza sulla scena geopolitica della governance e della forma di insediamento antropico di una parte «nuova» e ricca del mondo come l’Antartide.
Il percorso ai Giardini — a parte i padiglioni di 61 Paesi, anche in città — si conclude con un simbolico allestimento intitolato Future Assembly realizzato da tutti i partecipanti (di 112 Paesi) che vuole essere come un esperanto del Design: mostra «come vivremo nel futuro, ovvero un design multilaterale come le Nazioni Unite». È un manifesto contro le identità, festaiolo e abbastanza celebrativo del metodo seguito nella rassegna.
Le corderie dell’Arsenale sono una selva metallurgica dove nulla è ciò che sembra e solo un po’ di quel che si vede diventerà realtà. Design per new bodies ci avverte che «siamo diventati tutti cyborg» e la tecnologia è già in noi come estensione dei corpi e per questo abbiamo una nuova comprensione dello spazio. La Molecolar architecture progetta spazi partendo dalla risonanza magnetica, dalla quale si capisce «scientificamente» che luogo preferiamo. Magic Queen è un ambiente ibrido, un habitat incorporeo; Grove di Philiph Beesley, uno spazio di colonne fluttuanti e tettoie come nuvole; BitBioBot di due italiani è un’architettura che si basa su un cianobatterio — la spirulina — in grado di rimetabolizzare gli inquinanti; Maison fiber di un gruppo tedesco è la prima struttura costruita con un materiale fibroso: sarà il cemento del futuro?
Se proprio vogliamo l’architettura, allora dobbiamo porci la classica domanda: dov’è il bagno? Il Padiglione Restrooms è un bagno che cerca di essere no gender, sebbene la curatrice Matilde Cassani segnali che «la struttura non lo consenta fino in fondo». Il bagno è stato un luogo di lotta sociale (scritte politiche, droga) e oggi continua a esserlo sia con quello d’oro di Cattelan al Guggenheim sia con questo no gender: «Negli Stati Uniti — racconta — è stato ritenuto discriminatorio realizzare un apposito bagno per trans mentre da una protesta di donne cinesi è nata la richiesta che il rapporto tra bagni per donne e uomini sia di 1,5 a uno». Prepariamoci, dunque: forse funghi e muffe saranno le nostre pareti divisorie, la tecnologia sarà dentro di noi e attraverso i videogiochi dell’americano Sean Lally i ragazzi impareranno ad abitare. Va bene il lavabo no gender, ma che fine farà la tavoletta?