Forse la mistica nasce da una nostalgia a spirale – che ispira al salto, allo scatto. La perdita del contatto diretto con Dio, la percezione che la cittadella del rito è parziale, porta a rompere lo specchio del sacro, a tuffarsi nel Santo. La religione si muove sempre tra due dimensioni, a volte prossime, altre in contrasto: l’addestramento liturgico, la norma, la prestanza ‘pubblica’; e la chiamata individuale, lo scempio del prescelto. “L’uomo naturale non comprende le cose dello Spirito di Dio; sono follia per lui”, scrive San Paolo, “parliamo della sapienza di Dio, quella avvolta nel mistero, che prestabilì a nostra gloria prima dei secoli, e che nessuno dei dominatori del mondo conosce” (1 Cor, 2, 7-8). San Paolo, edotto ai misteri, promuoverà tuttavia un cristianesimo ‘edificante’ rispetto a quello ‘creativo’ – condanna, ad esempio, il ‘parlare in lingue’, la glossolalia, che sancisce l’intimo legame tra Dio e creatura. Eppure, gli estremi del suo ragionare portano a distinguere tra i “dominatori del mondo”, i principi del tempo, e il Dio avvolto nel mistero. Nella mistica ebraica, il pensiero porta a distinguere tra il “Dio vivente”, rivelato nella Bibbia, almeno nella superficie grammaticale – il testo è un lago: cela mostri e bellezze –, e l’En-Sof, il “Dio sconosciuto, nascosto”, “L’inafferrabile”, in cui il mistico, attraverso il paradosso, vuole annegare. Tra mistico, esteta, eresiarca, la differenza è fine, un’aureola d’oro: l’esito è una straordinaria gimkana nella conoscenza, nei gangli della gnosi.
Restammo nella stanza fino a sera. L’oscurità colava dalle finestre dello studio, che si rimpiccioliva, come una canoa. In linea d’aria – frequentavo la ‘Statale’ – si intuiva la facciata della sinagoga di Milano, di fronte a noi, oltre il parco della Guastalla. A vederla, mi pareva enorme, spaventosa: ricordo che una pantera – o meglio: un non identificabile felino, forse anch’esso un attributo del Dio nascosto – si aggira nella sinagoga, in un racconto di Kafka. Quello mi pareva un allevamento di pantere. Facevo l’esame di Filosofia ebraica con Giuseppe Laras, rabbino capo della Comunità Ebraica di Milano: potevamo ballare per dare ritmo al discorso. L’esame durò due ore, credo, nella mia mente fu lungo giorni, un tappeto di ere. Laras mi aveva fatto conoscere Gershom Scholem, Le grandi correnti della mistica ebraica, libro di clamorosa bellezza: ispira a recidere le corde con questo mondo, impone di carpire un segno anche dall’inutile ghigno della serranda, non sottrae al rischio di baloccare con Dio, che incede incendiando.
Nato il 5 dicembre 1897 a Berlino, emigrato in Palestina nel 1923, Scholem ha levato la mistica ebraica da attributo del tempo andato, al limite della favolistica – i repertori, brillanti, di Martin Buber –, l’ha eletta a studio, analitico, compiuto disseppellendo manoscritti perduti, tesori testuali remoti. Le grandi correnti della mistica ebraica comincia a comporsi nel 1937, è edito in inglese nel ’41, dedicato a Walter Benjamin, “l’amico, il cui ingegno riuniva la profondità del metafisico, l’acume del critico, l’erudizione del dotto. Morto a Porto Bou, in Spagna, sulla via della libertà”. La prima conferenza, Caratteri fondamentali della mistica ebraica, raduna diverse agnizioni, eccone alcune. “La mistica scorge il grande abisso, anzi prende le mosse dall’esperienza di questo, e avendone piena coscienza, cerca un segreto e una via che lo superi, e cerca di ristabilire su una nuova base l’unità distrutta dalla religione, quell’unità nella quale il mondo del mito e quello della rivelazione si incontrano nell’anima umana”; “La religione mistica cerca di fare di Dio – di quel Dio che le si presenta nelle specifiche rappresentazioni religiose della comunità in cui essa si sviluppa – oggetto di una nuova e viva esperienza, invece che oggetto del sapere della dommatica”; “La lingua raggiunge Dio perché essa procede da Dio… Tutto ciò che vive ha consistenza grazie alla Parola di Dio”.
Sapiente nella Qabbalah – ma l’infallibilità, per così dire, di Scholem, morto nel 1982, è stata scalfita da studiosi agguerriti, devoti e dotati, come Moshe Idel–, Scholem dedica il suo studio più importante, “la summa della sua opera” (Michele Ranchetti), a Sabbatai Zevi, “il Messia mistico” (edito nei ‘Millenni’ Einaudi nel 2001, ora è incomprensibilmente fuori catalogo). Vi lavorava da quando era ragazzo, diciassettenne, perché la figura di Sabbatai Zevi è la stimmate dell’ebraismo, il luogo più cupo, inaccettabile, crudele. Cabalista, nato a Smirne, cresciuto poppando dalle visioni dello Zohar, Sabbatai Zevi si proclama Messia nel 1648. Secondo il canone messianico, “coloro che lo vedevano lo presero per folle”, fu spalleggiato da un sagace profeta, Nathàn di Gaza. Sabbatai, di cui Scholem mappa, per così dire, l’attitudine psichica – “era senz’altro un maniaco depresso, cioè un uomo nel quale ad una condizione di profonda depressione e di malinconia si alternano periodicamente stati di esaltazione maniaca, di eccitazione e di euforia” – è un visionario, uno che vola nelle vite precedenti, in quelle a venire, in quelle possibili e impalpabili. Diversi messia, più o meno autorevoli, hanno attraversato la storia nostalgica dell’ebraismo: Sabbatai Zevi si differenzia da tutti per corrusco carisma. E per quanto accade nel 1666. Figura di desolato, assoluto splendore, che accoglie accoliti ovunque, Sabbatai Zevi è arrestato a Costantinopoli e condotto dopo due mesi davanti al Sultano Mehmed IV. Costretto dal potere – o autentico ‘realizzato’ – Sabbatai abiura l’ebraismo, si converte all’Islam, consolidando nel segreto la sua missione messianica. Se il Messia/Gesù è ucciso, in croce, il Messia/Sabbatai percorre l’apostasia: la natura del vuoto è opposta. La voragine aperta da Sabbetai è spiazzante: come è possibile esaltare la fede nel tradimento? La vera fede, forse, va praticata in segreto, nelle segrete, sotto la superficie di quella pubblica, altra? “L’apostasia del Messia è il compimento della parte più difficile della sua missione… Il Messia per adempiere la sua missione secondo il concetto ebraico deve essere costretto ad agire in modo che le sue stesse azioni sembrino condannarlo”. In qualche modo, Dio è per essere incompreso: per questo l’esegesi del testo non è aggraziata, ma un perturbamento.
L’apostasia del Messia è il compimento della parte più difficile della sua missione… Il Messia per adempiere la sua missione secondo il concetto ebraico deve essere costretto ad agire in modo che le sue stesse azioni sembrino condannarlo
Gershom Scholem
L’esito estremo del sabbatianesimo è l’antinomia totale, la preferenza al caos, “ritenere un santo ogni persona impura che si macchi di peccati più o meno gravi”, scrive Mosè Chagìz nel 1714. Insomma, Sabbatai ha purificato ogni scoria del mondo, il male è mondo, e “se tutto è puro in ogni atto non c’è nulla di riprovevole”. Mefistofelico eroe della “santità del peccato”, dottrina per cui il santo deve infognarsi nel peccato per avvicinarsi a Dio – “si credeva che chi fosse caduto più in basso fosse designato più degli altri a contemplare la luce” –, sarà Jacob Frank (1726-1790), il sapiente oscuro, proclamatosi erede di Sabbatai Zevi, ebreo convertito, per destino di contraddizione, al cristianesimo, personaggio degno di uno sfibrante romanzo di Dostoevskij. A quel punto, tra Dio e Caos i confini sono infranti.
“La nostalgia è la madre del rinnovamento. Coloro che sentono in sé il grande vuoto, la nostalgia gli insegna a riempire questo vuoto”, scrive Scholem nel 1915. Kawwana è l’immersione devota nella preghiera, falciando ogni distanza, come se Dio fosse una placenta, un braccio, il bacio.
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