Tito Livio, nel proemio dell’Ab Urbe Condita, si chiede se davvero ne valga la pena. Raccontare la storia di una città partita ab exiguis profecta initiis eo creverit ut iam magnitudine laboret sua, da inizi così umili ed ora collassata nella sua stessa grandezza. E così è tentare di raccontare l’attuale Roma, uno sforzo probabilmente vano. In tanti, o forse tutti, enucleano uno ad uno i problemi che affliggono la città da decenni: i trasporti, le buche, il lavoro, il decoro, la casa, la sicurezza, la povertà, le opere pubbliche, il verde. Si aggiunge ora un altro totem retorico, le periferie. I commentatori convivono con quest’ansia analitica ed oltre che individuare i problemi offrono a buon mercato anche le soluzioni.
Amministratori capaci, competenze, municipalizzate risanate, nuove leggi speciali sull’autonomia, ed altre panacee varie sempre invocate con un movente manageriale, fattivo, pragmatico ma tremendamente povero di sentimento. Rileva Marco Simoni — economista romano e presidente dello Human Technopole di Milano, nel suo recente saggioLa questione romana, uscito sul numero settembrino del Mulino — che a Roma non mancano né i problemi né le soluzioni, a Roma manca la politica. E un’idea di Roma, aggiungiamo noi.
Inutile e forse dannoso dover ripercorrere gli ultimi dieci anni di Campidoglio. Centro-destra e neofascismi, mafiette capitali, sindaci progressisti suicidati dalla stessa maggioranza, grillini, povertà abolite e cinghiali abbattuti. Cose romane si direbbe, e qui lo scoramento per le beghe partitiche o giudiziarie prevale su qualsiasi ambizione di ricostruire fatti e situazioni che ben conosciamo. Prima anche di ipotizzare delle risposte pratiche allo stato comatoso in cui versa la Capitale, è viva la necessità di una buona diagnosi che sappia cogliere il rapporto tra cause ed effetti senza scandagliare la storia recente in cerca del momento iniziale di questo processo di decadimento.
La questione è sì politica, e ben lo sostiene Simoni: individuare priorità e interessi meritevoli, distribuire le risorse, pianificare e creare partecipazione. Dopo i disastri amministrativi succedutisi negli ultimi anni si assiste ora a tattiche di partito ed autocandidature, con una classe dirigente incapace di andare oltre considerazioni ottative e slogan. La retorica del fare e fare subito nasconde però la polvere sotto al tappeto: la totale assenza di idee, un enorme non expedit partitico, una patata troppo bollente. Roma è ingovernabile e i partiti sanno bene quanto sia meglio starne alla larga, e in questa assenza prolifica il burocratismo del deep state del Campidoglio, un inestricabile labirinto escheriano di atti amministrativi che decidono le sorti dei cittadini. Lo spazio del dibattito si è desertificato nel tempo, appiattendo i margini di discussione su posizioni di retroguardia come il decorismo o la smania per la sicurezza. Di parlare di Roma e del suo ruolo nel tempo e nello spazio, non va a nessuno.
La questione è soprattutto sociale ed economica, con i tre pilastri della creazione cittadina di valore (spesa pubblica, manifattura ed edilizia) venuti meno negli ultimi vent’anni, acuendo le fragilità strutturali del tessuto sociale. La città è totalmente deindustrializzata, il terziario avanzato è assente, le diseguaglianze sociali fomentano il risentimento. La crescita demografica, meramente dovuta ai continui flussi migratori, ha negli ultimi trent’anni duplicato la domanda di servizi mentre se ne dimezzava l’offerta. Il Paese ha perso ogni fiducia nella sua capitale, che non solo non è più un traino economico ma è diventata finanche una zavorra di debito e inefficienza. Un processo di napolizzazione è in atto: la classe media si indebolisce, cresce la parte vulnerabile della città, i giovani emigrano in cerca di lavoro ed in questa penombra germoglia la criminalità.
Spiega bene Simoni:
Quella piccola borghesia ambiziosa, che era stata la spina dorsale della Roma che cresceva, vive oggi una crisi soggettiva profonda che le impedisce di svolgere quel ruolo di traino degli strati più deboli che le era stato proprio fino agli anni Novanta del secolo scorso. Gli strati più deboli, a loro volta, soffrono in maniera crescente di politiche sociali costruite su modelli del passato, con risorse insufficienti, e nessuna politica contro le disuguaglianze, ossia che si ponga come obiettivo la loro diminuzione.
Marco Simoni
Queste e molte altre questioni sarebbero e saranno cruciali in un dibattito maturo sullo stato della città, soprattutto ora che la pandemia ha abbattuto gli ultimi due settori-rifugio dell’economia capitolina: turismo e ristorazione, ultime cinghie di trasmissione della ricchezza per una fetta consistente di città.
Sono innumerabili gli elementi trascurati nelle autorevoli analisi che circolano e allo stesso tempo indubbiamente spesso valide le proposte messe in campo (tra le più recenti, quella dell’urbanista Berdini su Internazionale). Ma tutte miopi, a nostro avviso, perché non passano dalla principale delle questioni, quella morale.
Prima di pensare ai contenuti di un dibattito si deve prendere coscienza dell’assoluta mancanza di volontà a crearne uno. Da parte della politica, e lo si è detto, ma anche e soprattutto da parte della comunità. Un problema di autocoscienza e di valore storico, poiché i romani non sanno dove posizionare Roma in questa epoca, e questo è un fatto gravissimo per la città che ha cambiato i destini del mondo. Preoccupa, tra tutte, l’atarassia in cui è impaludata la mia generazione, inconsapevole di affrettare l’implosione della città e di condannarla all’insignificanza. Mai nella sua lunga e gloriosa storia, anche nei momenti più bui, la città ha rappresentato il nulla che rappresenta oggi persa nel sonno dell’apatia. In tempi di decadenza ci si ancorava ai mos maiorum, nella depressione morale del ‘500 si inseguiva l’ideale della bellezza, e quante altre volte ancora rischiando la rovina la città donava al mondo comunque qualcosa di grandioso.
Oggi al contrario prevale lo sconforto, una sensazione di impotenza soffocante, l’impossibilità anche solo di visualizzare un futuro o una forma di progresso. Manca, come si diceva, una coscienza collettiva. Non si parla del futuro delle città, dei temi cari agli accelerazionisti, dei ‘sistemi integrati territoriali’, di prevedere una ‘grande Roma’ sul modello di Londra o Singapore. Non si può ingegnerizzare una fuoriuscita da una crisi, progettare e poi implementare grandi piani di ricostruzione. Roma deve ritrovare il patrimonio morale che ne ha distinto il ruolo nella storia e per farlo deve liberare tutte le energie di cui dispone. A svegliare la città dal torpore spirituale in cui dorme devono essere i suoi abitanti e non papi stranieri. Che fare, dunque?
I romani non possono incidere sul destino della Chiesa o sugli affari dello Stato italiano, o sulle agenzie internazionali che risiedono in città, ma possono immaginare una nuova stella per Roma. Comprendere la necessità di un dibattito storico e culturale, riempire questo dibattito di contenuti, cercare una sintesi e riprendere il cammino. Combattere ignavia e indifferenza, indagare le cause dello straniamento, in larga misura tra i giovani, per la città e il suo ruolo di guida.
La scelta della capitale è determinata da grandi ragioni morali. È il sentimento dei popoli quello che decide le questioni ad essa relative.
Camillo Benso conte di Cavour
Cerchiamo prima la consapevolezza e il desiderio di aprire questo dibattito, dopodiché si dovrà trovare l’impeto per alimentarlo di idee e visioni che ricollochino la Città eterna dove le compete. Dovranno farlo i suoi abitanti ma anche il resto d’Italia. Dopo la battaglia di Mentana il ministro Eugène Rouher disse al Parlamento francese che que l’Italie peut faire sans Rome; nous déclarons qu’elle ne s’emparera jamais de cette ville. Sappiamo come è finito quel jamais ed il peso politico e culturale che Roma ha avuto nello sviluppo dello stato nazionale. Un peso politico oggi perso a favore dell’Unione Europea mentre la pandemia esacerba malumori mai sopiti nei particolarismi regionali. Un peso culturale evaporato negli ultimi dieci anni, senza una narrazione condivisa, con cinema e letteratura ingabbiati nel manierismo di raccontare il male e il crimine come connotato genetico della città. La città dei vivi (Einaudi) di Lagioia è l’ultimo arrivato: un romanzo potente ma arrendevole, una cronaca rinunciataria del degrado che attanaglia la città. Arrendevole perché comodo nel rifugiarsi nella sineddoche del Male che divora tutto. Serve che si mobiliti la cultura, senza inciampare nelle litanie dell’impegno civico, serve che si mobiliti producendo e arricchendo la città senza l’obbligo di doverla raccontare a tutti i costi come Sorrentino.
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