17/10/2020
Prima
di Gustavo Zagrebelsky
L a “ricchezza delle nazioni” non è solo denaro e ciò che serve a produrre denaro.
È un insieme di addendi.
Se la ricchezza delle nazioni non è solo un dato materiale ma, altrettanto importante, anche un dato spirituale e culturale, in questo insieme brilla la scuola. Non ci dovrebbero essere dubbi, se non fosse che, nel discutere di misure restrittive per contenere la diffusione del virus, la scuola rischia di essere considerata un pericolo valutato, nel suo potenziale di contagio, alla stregua dello stadio, della discoteca, del ristorante, del pub, del mezzo di trasporto, eccetera.
Anzi, chiudere le scuole, e così evitare anche i problemi collegati, come la sicurezza sui mezzi pubblici, può sembrare una via più semplice di tante altre, anche perché le categorie sociali che ne sarebbero coinvolte sono assai meno combattive rispetto a quelle coinvolte da altre restrizioni.
Se, all’inizio, la chiusura generalizzata e indiscriminata delle occasioni sociali di contagio, scuole comprese, è sembrato necessario e legittimo come intervento d’emergenza radicale, oggi, quando passa il tempo e l’emergenza si protrae, vi sono esigenze vitali che presentano anch’esse le loro ragioni. La misura totale cede il passo a misure selettive, parziali e mirate e, allora, si deve prendere in considerazione la gerarchia dei beni su cui esse incidono restrittivamente. Il bene-scuola deve stare in cima alla gerarchia, l’ultimo che deve essere penalizzato. Scrivo con la passione di uno che ha dedicato la vita alla scuola e che appartiene a una generazione su cui grava un enorme debito morale nei confronti dei giovani e del loro futuro. Chiudere le scuole, confinare i bambini e i ragazzi a casa loro davanti al computer, privarli del rapporto con i propri compagni, tecnologizzare il rapporto con i loro insegnanti, quali danni può provocare nella formazione delle loro personalità, formazione che è il primo scopo di ogni istituzione scolastica?
Forse è giunto il momento, “grazie” al virus, di preservare l’attività scolastica che è questione di primaria importanza nazionale e civile. “Nazionale” e “civile”: se c’è un obiettivo che merita la partecipazione di tutti e che non può essere perseguito solo con spirito passivo e remissivo, cioè lo spirito di ubbidienza alle leggi e alla burocrazia, ma fa appello allo spirito civico, questo è la protezione della scuola. Ben vengano le misure che devono essere adottate con strumenti giuridici, ma più di tutto gioverebbe il coinvolgimento dei bambini e dei ragazzi (spesso più ragionevoli e generosi dei loro padri e madri), degli insegnanti, del personale e dei dirigenti scolastici e dei loro sindacati, delle famiglie, degli organi della democrazia scolastica e, in genere, di tutti coloro che possono. Un patto sociale, insomma, e una mobilitazione per difendere l’apertura delle scuole. Chiamiamolo, per esempio, “manifesto per la scuola in tempo di pandemia” e facciamo in modo che sia diffuso, crei una cultura e una pressione sociale, infine orienti i comportamenti virtuosi.
Non sarebbe un titolo di merito, un obiettivo se, alla fine, il mondo della scuola riuscisse a risultare un’oasi di sicurezza e di serenità, pur nell’emergenza che colpisce tanti altri luoghi della vita collettiva?
La prima condizione è il rovesciamento di certe mentalità: da ciò che si obbligati a fare a ciò che si è liberi di fare. Per esempio: le mansioni, nella burocrazia, sono normalmente concepite come un tetto massimo e potrebbero invece rappresentare la base minima di ciò che è dovuto, che non esclude iniziative, sperimentazioni, dedizioni, tempi, ulteriori. Non dunque: che cosa mi è imposto e niente più, ma che cosa mi è possibile oltre a ciò che mi è imposto? L’autonomia scolastica è un buon punto di partenza, ma altrettanto lo sarebbe l’assunzione da parte del sindacato di un compito non solo di protezione, ma anche di promozione. Così, dovrebbe rovesciarsi l’atteggiamento delle famiglie protettivo, protestativo e rivendicativo nei confronti della scuola dei figli, dalla quale si pretende e alla quale non si dà.
Soprattutto, è nociva la mentalità per la quale alla scuola si pensa soltanto dal punto di vista dei propri figlioli e non, invece, da quello di una comunità in cui si cerca di collaborare per il bene di tutti. Per esempio, la questione dei mezzi di trasporto affollati, dove il virus può galoppare, sarebbe, se non risolta, almeno ridimensionata dalla disponibilità dei genitori che possono accompagnare i figli con la propria auto a trasportare qualche loro compagno. Occorre non solo disponibilità, ma anche coordinamento. Qui entrano in gioco, oltre alle iniziative spontanee, gli organi scolastici oppure le circoscrizioni. Ancora in tema di trasporto, perché non avvalersi, con appositi protocolli d’intesa, di mezzi di soggetti privati, oppure di quelli disponibili presso le forze armate e le forze di polizia? Qui entrano in gioco le imprese, le autorità civili e militari decentrate sul territorio.
Insomma, c’è spazio per molte iniziative, molte disponibilità, e molta inventiva. Per esempio, ancora con riguardo agli studenti: il comportamento dentro le classi, a quanto risulta, è responsabile e contegnoso. Ma appena fuori dell’edificio scolastico, le precauzioni si allentano.
Le energie represse si scatenano e, probabilmente, ciò è inevitabile e perfino opportuno. Ma, sarebbe possibile coinvolgere dei volontari, non per reprimere ma per indirizzare saggiamente quelle energie: come i classici e benemeriti pensionati che dirigono il traffico all’uscita delle scuole o i genitori che già vi si recano per riaccompagnare a casa i propri figli.
Infine: si dice che l’impatto del virus distrugge le relazioni sociali. Davvero? Potrebbe essere il contrario se fosse l’occasione per guardarci intorno e se, a seconda della posizione occupata nella vita sociale, si assumesse un poco di peso verso quello che, con un’espressione pretenziosa, si denomina “bene comune”, che è tuttavia la somma di tante piccole azioni particolari.