di Roberto Barzanti
La riapertura del Palazzo delle Papesse è stata comunicata con un’enfasi degna di miglior causa. L’operazione in fase di decollo evidenzia in realtà aspetti che, lungi dal ridare all’edificio rinascimentale (progettato forse da Bernardino Rossellino e portato a compimento da Antonio Federighi e Urbano da Cortona) funzioni assimilabili a quelle svolte con indiscusso prestigio quale sede dal Centro d’arte contemporanea inaugurato nel 1998, farebbe dell’immobile piccolomineo, almeno per un anno, una sorta di emporio espositivo-commerciale di circa duecento opere di Salvador Dalì o a lui attribuite su iniziativa di una fondazione che ha suscitato e suscita non marginali controversie. Sembra che un fondo di investimento di recente costituzione abbia assunto la proprietà dell’organismo legato al mercante d’arte Beniamino Levi, affittuario per un anno, con cifra simbolica, da Bankitalia dell’aulico Palazzo. Costui ha reiteratamente sostenuto, in contrasto con la Fondazione Dalì che fa capo alla compagna dell’artista Gala, di detenere diritti per riprodurre legittimamente alcune opere del bizzarro surrealista, ma non facendo mistero che al contempo offre una notevole quantità di multipli e altro materiale. Alcuni critici hanno parlato ironicamente di un bazar del quasi-Dalì. E esposizioni progettate con questo discusso patrimonio se ne sono allestite qua e là anche in Italia con formule chiacchieratissime. Ma per chiarire vicende assai complicate, più degne di un giallo che di una riflessione approfondita , non è questa la sede, né sarebbe corretto trinciare affrettati giudizi. Quel ch’è certo è che si cammina su sabbie mobili e che l’evento, come si usa dire, annunciato non è certo in grado di attribuire di nuovo al Palazzo il credito e la fama che seppe conquistarsi fino al 2008, quando chiuse i battenti. Il direttore Sergio Risaliti, quando evoca gli anni d’oro, non nasconde un giustificato orgoglio. Il successore Marco Pierini proseguì con impegno sulla stessa linea ma fu costretto a gestire piuttosto il preludio di una definitiva chiusura. L’idea del sindaco Piccini di inserire nel tessuto storico della città un Centro che non fosse solo espositivo, ma coagulasse esperienze di comunicazione e incontri giovanili in grado di dar vita ad una dissonante presenza di schietta creatività contemporanea fu felice. E avrebbe semmai meritato di esser corretta, soprattutto a causa della diminuzione del sostegno totale da parte della Fondazione Mps e anche per smorzare, con una programmazione più bilanciata, i mugugni di una città diffidente verso una troppo unidirezionale modernità. È lodevole che s’intenda rilanciare un discorso bruscamente interrotto, ma sarà bene chiarirsi le idee. È vero che il Comune in questo caso darebbe solo il patrocinio, ma proprio per questo finirebbe per avallare una strategia che sequestra alla città un bene che esige altro destino. A condurre le danze è Bankitalia, che vuol vendere – si dice – quella che fu sua sede dal 1864, ma si crede davvero che l’uso così grossolano prospettato sia la strada giusta per “valorizzare” un bene dalla storia tanto luminosa? Si è detto che uno degli acquirenti potrebbe essere la Polizia di Stato. Ma ci sarebbe da rallegrarsi per un ennesimo insediamento burocratico che di fatto chiuderebbe alla fruizione pubblica e alle finalità formative sociali e certo anche turistiche il magnifico dono che il papa consegnò ad una famiglia e ad una città affascinate dalla bellezza? I tempi sono difficili e le risorse scarseggiano. Non per ostilità a investimenti privatistici di corto respiro sarebbe auspicabile che il Comune tentasse almeno di sollecitare un diverso cammino. Se si vuol sul serio resuscitare in nuove modalità un Centro di arte contemporanea, perché non fare la voce grossa anche con Bankitalia e prefiggersi di promuovere l’istituzione, avvalendosi di esperti davvero esperti e nutrendo obiettivi di rilievo internazionale, di una sede dove arte e invenzione, rapporto con l’eredità e innovazioni tecnologiche, si intreccino e siano una polo di attrazione all’altezza del rinnovamento che la crisi non effimera di oggi più che mai chiede a tutti? Le polemiche partitiche non hanno senso quando si trattano questioni del genere. E l’urbanistica che dobbiamo preferire deve aver di mira sbocchi qualitativi di spicco cosmopolita. Se ai proclami altisonanti si vogliono far seguire fatti concreti, risultati durevoli.