Reagire alla crisi
di Aldo Cazzullo
Inaugurata da Mattarella alla vigilia del lockdown, subito chiusa, ibernata per tre mesi con i drappi neri a proteggere i disegni dalla luce, riaperta il 2 giugno in occasione della festa della Repubblica, la mostra per i cinquecento anni della morte di Raffaello chiude a fine mese, stavolta davvero. «Se necessario la terremo aperta fino alle 3 del mattino, per consentire a tutti di visitarla» aveva detto al Corriere il presidente delle Scuderie del Quirinale, Mario De Simoni. Si è fatto ancora di più: negli ultimi tre giorni, la mostra resterà aperta tutta la notte. Cento persone all’ora, tempi contingentati, mai troppa gente nelle sale: un meccanismo rodato, e nessun incidente.
Non era peregrino vedere nella mostra di Raffaello — artista universale ma anche caposaldo dell’identità nazionale — un segno dell’Italia che provava a ripartire.
Le difficoltà ci sono e sarebbe ipocrita negarle. Ma se a marzo — nei momenti più neri, quelli da mille morti al giorno — qualcuno ci avesse detto che quest’estate avremmo potuto riabbracciare i nostri cari, prendere un aereo, viaggiare su un treno, cenare in pizzeria, andare in vacanza, e appunto visitare una mostra, l’avremmo considerato, se non un pericoloso mitomane, uno spregiudicato ottimista.
Il dolore non si cancellerà facilmente. E anche la ripartenza dell’economia non sarà una passeggiata. Ma la prima cosa da fare è riprenderci le nostre vite. Dobbiamo recuperare la spinta alla socialità. Riassaporare almeno alcune delle antiche abitudini, che non erano poi così male.
Certo, ci sono regole da rispettare, precauzioni da prendere, incognite da non sottovalutare. Però l’atteggiamento giusto non è quello di chi aspetta che passi la nottata.
A ogni crisi i risparmi privati aumentano; perché gli italiani non spendono, non consumano, non investono, non rischiano; accumulano, e attendono. Ma la nottata non passa da sola. Se non circolano le persone, e non gira il denaro, allora non si creano posti di lavoro, non si pongono le premesse per la ripartenza.
I nostri centri storici sono un’alternanza di serrande abbassate, che inalberano cartelli con richieste d’aiuto, e locali che a fatica riaprono, mettono al lavoro i dipendenti, invitano via social i clienti abituali, ne attraggono di nuovi, rispettano le regole di sicurezza, si inventano nuove formule per far quadrare i conti. Chi interpreta meglio la fase storica? Chi merita di essere premiato con le agevolazioni fiscali?
Non è solo questione di numeri. È il piacere di ritrovare quel calore delle relazioni umane, che è uno dei principali motivi per cui è bello essere italiani. Un altro motivo è ovviamente la bellezza delle nostre città, dei nostri musei, dei nostri mari; che a volte sembriamo dare per scontata.
Sarà un agosto strano. Molte libertà ci saranno negate, a cominciare dai viaggi in America e in molte altre nazioni straniere. Ma sarà anche l’occasione per recuperare qualcosa che abbiamo perduto. Per rinsaldare i rapporti con le persone cui vogliamo bene. E per riscoprire un Paese — il nostro — che non è retorica definire il più bello, grazie anche alla genialità e all’umanità dei nostri antenati.
Poco prima di morire, il Venerdì Santo del 1520, Raffaello scrisse — insieme con Baldassarre Castiglione — una lettera a un Papa fiorentino, Leone X, il figlio di Lorenzo il Magnifico, per denunciare l’abbandono in cui versavano le vestigia dell’antica Roma. Confidò il proprio «grandissimo dolore vedendo quasi il cadavere di quella nobil patria, che è stata regina del mondo, così miseramente lacerato». E chiese al Papa di salvare «quel poco che resta di questa antica madre della gloria e della grandezza italiana». Non disse «romana», Raffaello; disse proprio «italiana». L’Italia non era ancora uno Stato, ma era già una patria. Esisteva già non per un fatto d’armi e di diplomazia, ma come sistema di valori, canone estetico, incontro tra il mondo classico e quello cristiano. Essere consapevoli di chi siamo è sempre necessario e utile; a maggior ragione nei giorni difficili, come questi.