di Giuseppe Lauria Pinter
Caro direttore, poiché il capitale umano è una risorsa universale e non è migliore o peggiore in un Paese piuttosto che in un altro, auspico che il dibattito di recente riaffiorato su istruzione e sviluppo economico si focalizzi su un concetto che tutti riterranno importante sul piano teorico, ma che sul piano pratico ci trova in cronico difetto: la differenza tra interventi strutturali ed estemporanei. Il mio mentore bergamasco, nel commentare il dibattito, mi ha ricordato una riflessione giovanile di Galbraith su come, all’insegna di tutto ciò che è più difficile da ottenere, la vera fonte di ricchezza sia la conoscenza perché richiede tempo, applicazione e uomini motivati. La conoscenza, elemento nodale nella relazione tra istruzione, innovazione ed economia reale, è punto di partenza e percorso continuo nei piani di sviluppo dei Paesi che fanno di essa uno strumento di competizione internazionale. Il piano di appoggio per analizzare la realtà, prendere decisioni, valutarne i risultati, introdurre correttivi. Pur assumendo che la motivazione esista — in effetti un’onda di supporto si è sollevata — applicazione e tempo restano due variabili da affrontare. Oggi in particolare, vista la straordinaria disponibilità economica che avremo.
Le aziende biotech e farmaceutiche sono alla costante ricerca di nuove idee da sviluppare, che spesso trovano nei laboratori dove lavorano i dottorandi. Questo crea un forte legame tra università e industria, ben riconoscibile nei Paesi il cui sistema formativo produce una grande spinta all’innovazione scientifica: Stati Uniti, Gran Bretagna, Germania, Svizzera, Giappone tra i più rappresentativi. Le università strutturano le basi della conoscenza e gli studenti raggiungono traguardi lungo un percorso che nella sua fase finale — dottorati e postdoctoral fellowship — trova interessi condivisi e nuovi interlocutori nei dipartimenti di ricerca e sviluppo industriali o nelle start-up delle università, iniziative in Italia di difficile realizzazione e soprattutto di molto difficile sopravvivenza. Questi Paesi hanno contestualmente investito nella ricerca di base. Parlare di scienza ed economia senza comprendere questo punto è privo di senso. Avere laboratori in cui si studiano la struttura di una proteina, la mutazione di un gene o le basi chimico-fisiche di un fenomeno pone le basi al raggiungimento di grandi obiettivi, per i quali sono necessari applicazione e tempo. Un paio di esempi sono il premio Nobel per la Chimica del 2017 per la scoperta della microscopia crioelettronica che permette di ricostruire strutture molecolari e sviluppare nuovi farmaci, e quello per la Medicina del 2018 per la scoperta dei checkpoint inhibitors che hanno cambiato il volto di chemioterapia e immunoterapia.
Università, industria, sistemi sanitari: un circuito che impatta positivamente su economia e società civile nei Paesi che hanno adottato strategie di gestione della conoscenza e dei frutti che da essa derivano. Guardiamo alla Cina: tra non oltre 10 anni una buona quota, forse la maggioranza, dei laureati occidentali in discipline biomediche aspirerà a ottenere un dottorato in quel Paese. Guardiamo all’Italia; con buona pace di tutti, nulla di ciò è accaduto, rendendoci nei fatti al limite dell’irrilevanza nel panorama internazionale. Abbiamo senza dubbio atenei e centri di ricerca di alto livello e attrattività (in particolare quelli che si giovano di statuti speciali). Ma la questione resta la forza complessiva del nostro Paese che in questo settore naufraga in una politica fatta di estemporaneità, impossibilità di gestire le risorse umane in modo competitivo e una legislazione ipertrofica che amplifica una gestione amministrativa astrusa.
Carenze
In Italia emergono scarsa conoscenza del valore della ricerca di base
e minimi investimenti, insufficiente condivisione tra accademia e industria
Siamo uno dei pochi Paesi a non aver ancora definito una strategia per l’internalizzazione della formazione. Il numero di studenti universitari stranieri, come percentuale del totale delle iscrizioni, è metà di quello della Francia e meno di un terzo del Regno Unito. Il numero di posti di dottorato è in continuo calo e l’attrattività internazionale, a parte rare eccezioni, è tra le più basse del mondo. In uno scenario caratterizzato da una forte relazione positiva tra mobilità internazionale in entrata e risultati della ricerca in proporzione al prodotto totale della ricerca del Paese che li accoglie, le nostre prospettive future appaiono desolanti quanto il presente.
Anche quando il legislatore pare assumere una strategia di lungo termine, l’iniziativa risulta lontana dall’offrire strumenti utili a una vera competitività. Un esempio eclatante è l’operazione «ritorno dei cervelli dall’estero» regolata da una legge del 2010 (art. 44 Dl. n. 78) a favore di chi abbia «svolto documentata attività di ricerca o docenza all’estero presso centri di ricerca pubblici o privati o università per almeno due anni continuativi». La modifica introdotta con il Dl. n. 34/19 garantisce una tassazione al 10% per 6 anni che si estende a 13 in base al numero di figli a carico. Nessuna misura dell’efficienza scientifica del candidato, della fattibilità dei progetti nella nuova sede e nessun controllo sul raggiungimento di obiettivi. Quale Paese che ha come priorità il miglior funzionamento del proprio sistema di ricerca fa un investimento sulla base di una «documentata attività di ricerca o docenza per due anni?».
Gli aspetti finora discussi pesano nel rapporto tra ricerca accademica e mondo industriale. Di nuovo, però, vale la pena sottolineare quanto applicazione e tempo siano variabili importanti per rendere proficua questa relazione. In medicina un buon indicatore sono gli studi di fase 1, cioè quelli che avviano il processo di analisi sperimentale di un farmaco. Essi rappresentano in una certa misura la trasformazione di quelle nuove idee, spesso nate nei laboratori dei dottorandi, che possono ambire a uno sviluppo industriale. Dai registri Eudract e ClinicalTrials emerge che in Italia se ne svolgono da metà a un terzo rispetto a Francia, Olanda, Germania, Gran Bretagna, Spagna. Non è sorprendente: scarsa conoscenza del valore della ricerca di base e minimi investimenti, poche aziende biotech e farmaceutiche, insufficiente condivisione tra accademia e industria.
Una serie concatenata di nodi che possono essere affrontati se, con onestà intellettuale e coraggio politico — parlamentare e accademico — si dichiarerà che abbiamo bisogno di nuovi modelli e che ci vorrà tempo per raggiungere l’obiettivo di un sistema formativo e di ricerca competitivo, in grado di promuovere l’economia. Senza una visione strategica che parta dall’analisi seria delle criticità di un sistema forse ostinatamente troppo pubblico e definisca interventi strutturali in relazione allo scenario internazionale, finiranno i soldi e tutto sarà come prima. Nessuno dice che sia facile. Ma sfido chiunque a dire che non sia fondamentale.