Nonostante negli ultimi anni la crime fiction sia migrata in gran parte sugli schermi televisivi – soprattutto grazie a serie di qualità come True Detective –, il romanzo poliziesco statunitense continua a godere di straordinaria vitalità in Italia, lo dimostra il successo delle opere più recenti di veterani quali James Ellroy e Don Winslow. Non stupisce quindi che un maestro del noir americano come Herbert Lieberman, molto apprezzato in Francia ma di fatto sconosciuto in America, venga riscoperto e proposto nel nostro paese diventando un piccolo caso editoriale.
Il merito è di minimum fax, che tra il 2018 e il 2020 ha pubblicato tre suoi romanzi a formare un’ideale trilogia newyorkese. Caccia alle ombre (pp. 515, € 20,00) risale al 1989 ed è il più recente; strutturato come un ballo tragico in sei atti e presentato nell’ottima traduzione di Raffaella Vitangeli, è anche il più coinvolgente e maturo dei tre.
Da profondo conoscitore degli stilemi della detective fiction, Lieberman (che non a caso è anche drammaturgo) orchestra una perfetta simmetria tra i quattro personaggi principali – come se i loro movimenti costituissero i passi di una elaborata coreografia. I protagonisti sono due vecchie conoscenze dei suoi lettori: il geniale anatomopatologo Konig, protagonista di Città di morti, e Mooney, il brillante ma attempato detective reduce dalla difficile indagine narrata ne Il fiore della notte.
Il primo, asociale e misogino, è soprannominato dai colleghi «Lord cancelliere della necropoli» perché, straziato da un terribile lutto famigliare, passa il tempo da solo in obitorio ad analizzare «il raccolto giornaliero della carneficina commessa dall’uomo: le carcasse dei miserabili e dei vagabondi, dei criminali e dei pazzi». Mooney invece si è da poco sposato con Fritzi, la proprietaria di un bar-ristorante con cui condivide la passione per l’ippica e il buon cibo, ma a pochi mesi dalla pensione è costretto a giocarsi la reputazione per risolvere il nuovo, intricato caso. Nell’incipit del romanzo lo troviamo intento a calarsi in un tombino sotto una pioggia scrosciante: «Non esattamente la soluzione ideale per un sessantaduenne di centoquattro chili con un’ernia del disco e nessuna idea, una volta sceso, di come risalire».
Stavolta Konig e Mooney dovranno impiegare tutto il loro intuito per contrastare le gesta efferate di ben due serial killer: dalle indagini risulta infatti che all’assassino, soprannominato «l’ombra danzante», si è affiancato un emulo che adotta un modus operandi molto simile. Lieberman è abile a orchestrare continui scambi di ruolo tra criminali e vittime, così che nulla è mai come sembra: quando scopre di essere imitato lo stupratore omicida si sente a sua volta «quasi violentato, come se quel perfetto sconosciuto stesse cercando di rubargli l’identità»; assume quindi lui stesso i panni del detective e comincia a pedinare la sua nemesi, innescando una caccia nella caccia che raggiunge un primo apice esattamente a metà del libro.
Gli assassini provengono inoltre dagli estremi opposti della società: orfano cresciuto nei bassifondi di New York l’uno, figlio di un ricco imprenditore fallito l’altro. Ed è proprio la New York schizofrenica degli anni Ottanta – dove gli yuppies e i senzatetto rappresentano le due facce della gentrification – a emergere come vera protagonista, incarnata nello straordinario personaggio di Suki Klink, «la Stracciona Affittacamere» che abita con il killer in una vecchia stamberga «piantata nel cuore del distretto finanziario come una gigantesca verruca sul naso eburneo del grande capitale americano».