Ripellino, parole-spillo e parole-incantesimo

Il 21 aprile 1978 si spegneva a Roma, all’età di 54 anni, Angelo Maria Ripellino. Poeta, saggista, traduttore, docente universitario, critico teatrale, giornalista, l’autore di Praga magica ha attraversato con le movenze aggraziate di un saltimbanco un’epoca controversa come quella a cavallo tra gli anni cinquanta e settanta senza mai perdere la propria eleganza e il proprio senso dell’equilibrio. Segnò come un maestro in esilio nella propria terra un gusto, una cultura facendoci conoscere un mondo stravagante, popolato di ciarlatani e alchimisti, pagliacci e negromanti, registi e marionette. Ci fece addentrare come nessun altro tra i vicoli inquietanti di Praga, dove sfuggì miracolosamente alla morte in un sanatorio che distava soltanto un pugno di chilometri dalla «città d’oro» per curare lo stesso male di cui soffriva Kafka. I versi che compose stridono con suono analogo a quello che i violinisti di Chagall ricavavano dai loro strumenti scordati quando, angustiati dalle tinte atrabiliari dei loro volti, adornavano di melodie sottili come capelli l’andirivieni arruffato delle nuvole.
Quanti autori ci ha fatto conoscere Ripellino attraverso mirabolanti versioni e introduzioni o con la sua attività di consulente editoriale? Spesso si tratta di nomi insospettabili come quello di Gombrowicz, altre volte di classici spogliati della cortina di polvere impressa dal tempo e dai cattivi maestri come Dostoevskij, Puškin, Lermontov, Tjutcev, Cechov che si affiancano ai più significativi esponenti delle avanguardie storiche, non di rado presentati per la prima volta in italiano: da Blok a Chlebnikov, da Pasternak a Majakovskij, da Halas a Holan, i cui nomi sono trascritti immancabilmente con il riconoscimento che si deve anche a un accento grave o acuto. Un vero e proprio universo fantasmagorico in cui la tragedia della storia irrompe attraverso la voce conturbante di alcuni dei suoi più emblematici cantori che si stagliano in quell’orizzonte dalle tinte corrusche con i movimenti impacciati del Golem di Meyrink o del robot di Capek.
Ripellino stesso sembra scaturire da quest’aura da lanterna magica mediante le equivoche fattezze di un cinese generato a Palermo, come un grottesco clown di Rouault o un archivista hoffmanniano sine tempore, riservandoci anche dopo la prematura scomparsa un fuoco di fila di rutilanti sorprese. Facendo riferimento allo strampalato Baedeker composto sulla città vltavina, così lo ricordava Giacinto Spagnoletti: «Alto, bruno, un ciuffo dei neri capelli quasi incollato alla fronte, il viso scavato da un male cattivo, gli occhi vividi di entusiasmo e tuttavia increduli, sembrava uscito da una delle illustrazioni del suo libro». Soltanto un paio di anni fa Einaudi aveva licenziato fuori commercio Lettere e schede editoriali, curate in maniera impeccabile da uno dei suoi più fedeli esegeti, Antonio Pane, dov’era possibile immergersi nell’atmosfera degli innumerevoli sodalizi intellettuali (tra i corrispondenti Calvino e Landolfi) e della pluriennale collaborazione einaudiana.
Ora appaiono a sorpresa i due ponderosi volumi di Iridescenze Note e recensioni letterarie 1941-1976 (Aragno, pp. 866, € 60,00), curati dallo stesso Pane e da Umberto Brunetti, dove si presenta l’attività di critico militante effettuata per conto di varie riviste e giornali, da «La fiera letteraria» al Corriere della Sera, da «L’Europa letteraria» a «L’Espresso», oltre a una serie di testate specialistiche. Ne è uscito un lavoro ragguardevole, sia per l’inimitabile qualità della scrittura ripelliniana, sia per la curatela attenta e precisa. Ripellino indaga ogni tema e ogni testo con annotazioni circostanziate e sorprendenti, approfondendo un tipo di lettura comparatistica e interdisciplinare. Per parlare del mito del vodnìk, l’omino delle acque presente nel folclore boemo, disquisisce sull’«intarsio allegorico di rizòpodi, idracnidi, crostacei e d’altre larve lacustri» di Arcimboldo nonché di poeti e pittori poco conosciuti, per arrivare infine agli exempla contrapposti di Kafka e di Hašek.
Si passa dagli scritti iniziali che prendono in considerazione autori italiani come Lisi, Govoni, Grande e Cardarelli al petrarchismo spagnolo e alle teorie sulla poetica di Anceschi, prima di avventurarsi nel territorio sconfinato della slavistica, della russistica, di cui diventerà uno degli indiscussi alfieri, senza mai scadere nell’accademismo d’accatto. Basterebbe d’altronde la recensione intitolata Il cigno abbandonato, dedicata all’antologia rizzoliana della Cvetaeva, per ragguagliarci sulle reali attitudini a disquisire sugli autori amati come si trattasse di un «compendio di cristallografia», di una cabala invisa agli «imbianchini letterari» di ieri e di oggi. La traduzione allestita da Pietro Zveteremich è «come un’ombra scialba del linguaggio della Cvetàeva, di quell’asfissia del linguaggio, malmenato e strozzato, ridotto a monosillabi, a gridi, a deflagrazioni – di quell’Alta Raucedine, sgrigliolìo di parole sfiancate e contratte, che si reggono insieme, come una turba di invalidi e di sbandati, mediante trattini e rimandi fonetici, che guizzano per i versi come micce». Bisognerebbe riportare il contributo integralmente al fine di rendersi conto di come vada scritta una recensione in un’epoca dominata dal kitsch e dall’approssimazione. Accontentiamoci di qualche frammento, abbacinante come siderea pagliuzza d’oro in una notte invernale: «Nell’arte della Cvetàeva l’incandescenza di un’estasi simile a quella delle sante si fa equilibrio con un disperato bisogno di eresia, con l’ansia di ascendere al rogo. (…) Sorella delle sorcières enumerate da Michelet, manipola le poesie come intrugli e incantesimi: i versi, incrinati da folgori e crampi, con squarci di ferite, con parole scorticate sino alla radice e con rispondenze da formule folcloriche, hanno l’agitazione satanesca d’un sabba, sono aghi sonori per esecrare e trafiggere». Parole-spilli, parole-incantesimi, alla stregua dei sorts di artaudiana memoria.
Le critiche indugiano intorno a vangeli e protovangeli dell’avanguardia, con una particolare propensione per cubofuturismo e costruttivismo. Ecco allora sfilare, come in un corteo carnascialesco intriso di chiaroscuri caravaggeschi, i profili di volta in volta ieratici o irriverenti dei poeti prediletti: il «lunatico» Blok, il sontuoso clochard Chlebnikov che si riempie le tasche della palandrana di manoscritti e taccuini che puntualmente perde, Majakovskij sullo sfondo dei suoi coloratissimi lubki, Mandel’štam e la sua «prosa-Ermitage», Pasternak considerato un «metafisico del Seicento». Ogni pagina è uno spettacolo pirotecnico, una sorta di duchampiana machine célibataire arricchita da una congerie di propaggini eccentriche (e forse a tale modello, ereditato da Roussel, penserà l’amico Perilli quando allestirà nel 1960 l’immagine di copertina della raccolta poetica Non un giorno ma adesso). In un articolo Ripellino si dedica alla trascrizione di un sogno scaturito dalla lettura dello «splendido libro di George C. Vaillant sugli Aztechi» che costituisce il pretesto per alcune digressioni intorno al ruolo avuto dagli efferati rituali precolombiani sul théâtre de la cruauté.
Ma Ripellino non si fossilizza intorno ai soli autori russi o boemi, spaziando dagli «oggetti d’affezione» di Man Ray alle silhouettes enigmatiche degli «omini in bombetta e nero stiffelius» di Magritte, dall’opera variegata del polacco Witkiewicz (maître et ami di Schulz e Gombrowicz) che allestisce un cabaret-manicomio dalle trame incongruenti, al mago e inventore di automi che giocano a scacchi Robert-Houdin, da cui Houdini ricaverà lo pseudonimo. Non poteva mancare Charlie Parker che, tramite i gemiti bebop del suo sax contralto, dialoga con le cantilene terminali di Esenin, «smorzate, ottobrine».
Questo funambolismo, questa clownerie, apparentante Mejerchol’d allo slapstick, sfocia in una metaforica flânerie che ha perso il suo sostrato benjaminiano. Lo stesso autore, nella bandella del suo Autunnale barocco, rivendicava la «caparbietà di non soccombere agli sfaceli, di sopravvivere, tenendo a distanza con la magia del Belcanto, con la pienezza polposa delle parole, con gli esorcismi delle paronomàsie e delle assonanze la Morte». Non è un caso che, tra una divagazione su Nezval e un appunto su Belyi, Ripellino si occupi del Ritratto dell’autore da saltimbanco di Starobinski, aderendo alla poetica del «clown agile, il baladin mercuriale secondo il linguaggio alchimistico, il saltatore miracoloso che vince la pesantezza, si arrischia su corde tese sopra la folla».

 

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