di Federico Fubini
Superata l’emergenza assoluta dei mesi scorsi, paradossalmente per il governo il momento delle scelte più difficili sta arrivando adesso. Fino a ieri è servita molta determinazione e una dose di coraggio nel restringere le libertà personali come mai nella storia repubblicana, cercando di proteggere gli italiani dai costi che ne stanno derivando. Ma almeno in primavera non c’erano molti dubbi sul da farsi: cassa integrazione o altri sussidi per tutti coloro che non lavorano, garanzie pubbliche sui nuovi prestiti bancari, sospensione dei rimborsi alle banche dei debiti preesistenti e delle scadenze fiscali; infine tutti i dipendenti pubblici sono stati e restano a casa mentre, nel privato, i licenziamenti restano proibiti per legge.
Provvedimenti da economia di guerra. A essere onesti l’ultima misura, il divieto di licenziamento, non è stata applicata in modo così radicale da nessun altro Paese (senza riuscire a impedire un crollo di 400 mila occupati già solo fra febbraio e aprile). Ma la sostanza non cambia: il governo ha steso un’enorme rete di protezione sotto decine di milioni di famiglie e sotto milioni di imprese.
Mai prima nella storia d’Italia tanti italiani erano stati tanto garantiti, sussidiati e tutelati dallo Stato allo stesso tempo. Già, ma ora?
Quella rete di sicurezza non può restare lì troppo a lungo così com’è, perché costerebbe centinaia di miliardi (che non ci sono) e farebbe degli italiani un popolo di assistiti da uno Stato-mamma (che nessuno, o meglio quasi nessuno, dice di volere). Una crisi finanziaria e l’appassire dello spirito di iniziativa e responsabilità personale sarebbero dietro l’angolo. Moltissimi italiani hanno ancora bisogno di aiuto, ne hanno diritto e lo avranno. Ma lo Stato-mamma non può essere per sempre. E il momento di iniziare a pensare a un progressivo ritorno alla normalità è adesso, per almeno tre ragioni.
La prima è che il governo sta studiando in queste settimane un nuovo scostamento di bilancio (in sostanza, più deficit) stimato in questo momento fino a venti miliardi di euro. Servono per rimettere a posto certi nodi della rete che si stanno sfilacciando, cioè per rifinanziare alcune delle misure di protezione. Si crea dunque l’opportunità per aggiustare certi meccanismi.
La seconda ragione per pensare adesso all’uscita dallo stato di protezione totale è che tra poco potremmo vedere i primi accenni di ripresa. Timidi, a macchia di leopardo, insufficienti. Ma reali. La fiducia dei manager manifatturieri sta risalendo dai minimi (in Francia, Gran Bretagna e Danimarca è già sopra la soglia che segna un’espansione). A maggio si è toccato il record di 850 milioni di ore di ore di cassa integrazione, un numero enorme, quasi cento volte più alto di un anno fa; ma si è già ridotta di due terzi la cassa integrazione ordinaria, quella usata in gran parte nell’industria, e da luglio l’economia potrebbe ricominciare a crescere dai livelli letargici ai quali era precipitata in primavera.
C’è però poi una terza ragione per mettere in cima all’agenda di governo l’uscita da quell’enorme esperimento sociale che è lo Stato-mamma. Ed è che le sue misure stanno scadendo: il blocco dei licenziamenti è in vigore solo fino al 17 agosto; la cassa integrazione va rifinanziata, ma farlo a tappeto per tutti costa decisamente troppo; la moratoria sui rimborsi dei vecchi debiti bancari dura fino a fine settembre; la sospensione delle scadenze fiscali non può essere sospinta sempre un po’ più in là, senza un orizzonte preciso dei tempi né dei doveri. E le garanzie pubbliche sui nuovi prestiti delle banche si potranno attivare solo fino a dicembre. Decine di milioni di italiani oggi sono dunque protetti dallo Stato ancora per un po’, ma non sanno cosa succederà dopo. Temono di trovarsi di fronte a un effetto-precipizio. C’è da capirli se ci pensano due, tre, quattro volte prima di spendere un solo euro. Non per niente i consumi restano ibernati e il risparmio privato tipico delle fasi di insicurezza non fa che crescere: in aprile i depositi bancari delle famiglie erano già saliti di 25 miliardi dai livelli di febbraio, quelli delle imprese di cinque. Pensiamoci: in due mesi il risparmio liquido dei privati in Italia è cresciuto di una somma superiore a quanto sia cresciuto il debito pubblico con il decreto di emergenza di quel momento, il «Cura Italia»; è un indizio che lo Stato-mamma — magari era inevitabile, nel caos della pandemia — sta nutrendo anche qualcuno che potrebbe cavarsela da sé.
La sfida più urgente per far ripartire i consumi non è dunque promettere il taglio dell’imposta sui consumi (Iva) o sui redditi delle persone (Irpef). Gli italiani non spenderebbero comunque perché quegli sgravi non sarebbero credibili, senza un disegno complessivo di riforma in cui altre entrate — magari sulla prima casa o sulle successioni — dovrebbero salire per garantire un riequilibrio. La vera sfida ora è orchestrare il riassetto della rete di sicurezza. Senza visibilità su ciò che li aspetta dopo le tutele, gli italiani non torneranno nei negozi e non investiranno: continueranno ad accumulare risparmio assopito nei conti in banca per auto-assicurarsi dal buio del futuro.
Di qui l’esigenza di disegnare a un percorso graduale, fondato sulla consapevolezza che l’assistenzialismo a tappeto, alla lunga, è un veleno inodore. All’inizio va giù come l’acqua, poi però mina la finanza pubblica e la capacità di fare delle persone. Nel governo si sta pensando ora a introdurre sgravi contributivi a tempo per le imprese che richiamino i dipendenti dalla cassa integrazione; in Francia poi il sussidio è più alto, a condizione che il cassaintegrato segua una formazione. Quanto alle garanzie bancarie, possono passare per esempio dal cento per cento attuale al 50% delle somme prestate e poi a zero: gli istituti e le imprese devono riabituarsi a prendersi almeno una parte di responsabilità delle scelte, senza contare di scaricare ogni errore sul contribuente. Dopo il 17 agosto anche il blocco dei licenziamenti potrebbe riguardare non più tutte le aziende, ma solo quelle che si avvalgono di sostegni pubblici (come accade già oggi in Spagna e in Grecia). Le stesse moratorie sui debiti fiscali e bancari a un certo punto dovrebbero spettare solo ai settori più colpiti, non a chiunque. Infine tenere a casa tutti gli statali fino a fine anno come propone M5S — mentre i sindacati si agitano per far avere loro i buoni-pasto comunque — può essere un modo di andare a caccia di voti in una «constituency» di tre milioni di persone. Ma va spiegato a milioni di italiani che al lavoro vorrebbero tanto poterci andare, se solo lo avessero.
Altro che Recovery Fund: è su questi temi che l’Italia nei prossimi mesi si gioca tutto, nella finanza pubblica e anche nel suo spirito di reazione. È tempo di muovere piccoli passi per tornare a un po’ di normale economia (sociale) di mercato, prima di disabituarci del tutto a camminare. Ma qualcuno, a Roma, ci pensa?