Ancora previsioni del mondo che verrà! Ne sono piene le bocche, ne sono piene le pagine dei media, su schermo o su carta. Ormai è diventato uno sport di massa, in competizione con l’altro – di chi è la colpa del coronavirus? – molto amato dal presidente Trump. Niente di strano: la nostra vita è cambiata così tanto e così rapidamente, che l’unico modo per sentirsi ancorati a terra è provare a tracciare coordinate più o meno precise per il futuro. Non facciamoci illusioni, però: saggiamente Adam Gopnik in un intervento sul New Yorker (Will the coronavirus really change the way we think?) avverte che tutti tendiamo a vedere l’oggi e a prevedere il domani in base a schemi mentali radicati nelle esperienze di ieri. «Ben lungi dal costringerci a ripensare i nostri parametri e a ridefinire la nostra visione del mondo – scrive Gopnik – le grandi crisi storiche quasi sempre rafforzano le nostre opinioni precedenti e ribadiscono i nostri dogmi».
Così non sorprende che uno scrittore che ha fatto del disincanto la sua cifra letteraria, Michel Houellebecq, in una lettera aperta inviata al canale televisivo France Inter, parli di un «virus senza qualità» e di «un’epidemia al tempo stesso angosciante e noiosa», i cui effetti si limiteranno ad accelerare tendenze già in corso.
Secondo l’autore delle Particelle elementari e di Serotonina, «da parecchi anni l’insieme delle evoluzioni tecnologiche, che siano piccole (video on demand, pagamento contactless) o grandi (telelavoro, acquisti in rete, social network) hanno avuto come principale conseguenza (o per principale obiettivo?) il calo dei contatti materiali, e soprattutto umani. L’epidemia di coronavirus offre una meravigliosa ragion d’essere a questa plumbea tendenza: una certa obsolescenza che sembra colpire le relazioni umane».
Non cambierà proprio niente allora? Sì, invece. Sembra per esempio (lo scrive Stacy Perman sul Los Angeles Times) che le case di produzione statunitensi abbiano deciso di accamparsi, temporaneamente o no, in Islanda. L’interesse del cinema e della televisione per l’isola dei ghiacci e dei vulcani non è nuovo (Game of Thrones, Prometheus, Thor), ma ora c’è una potente attrattiva in più: i grandi spazi aperti e soprattutto i test a tappeto avviati dal governo di Reykjavik sono diventati cruciali «in un tempo in cui la capacità di contenere la diffusione del coronavirus è diventata altrettanto importante degli incentivi fiscali o delle infrastrutture».
Anche case editrici e librerie sono in cerca di nuove modalità di sopravvivenza e magari di un’imprevedibile fioritura, ora che l’era delle presentazioni fra gli scaffali e del firmacopie sembra finita, forse per sempre. Com’era prevedibile, gli incontri con gli autori sono migrati online con risultati che a prima vista sembrano incoraggianti: ripresi nella solitudine delle loro camerette, sullo sfondo di immancabili librerie, scrittrici e scrittori attirano spesso un pubblico più folto di quello che avrebbe assistito alla loro performance dal vivo.
Ma Claire Kirch sul periodico specializzato Publishers Weekly invita alla prudenza. Forse gli incontri virtuali con gli autori sono the next big thing, come annuncia il titolo, ma in termini economici i risultati sono incerti: a proposito di un ciclo di presentazioni online organizzato dalla libreria Left Bank di St. Louis, Kirch nota asciutta che «il numero di spettatori è stato alto, ma le vendite sono rimaste ferme». E ben poco trionfalistico è il commento di Riley Davis, che organizza gli incontri per la Next Chapter di St.Paul, in Minnesota: «Se non altro queste iniziative ricordano alla gente che ci siamo». È già qualcosa, in fondo.