Di Hisham Matar, scrittore newyorchese di origini libiche, è appena uscito “ Un punto di approdo”, ma i suoi “ romanzi autobiografici” sono un unico magnifico racconto dei luoghi e delle genti del Mediterraneo
di Pietro Citati
Non avevo mai letto i libri di Hisham Matar; e li raccomando calorosamente ai lettori italiani. Nato a New York nel 1970 da genitori libici, Hisham Matar è cresciuto a Tripoli e al Cairo: si è trasferito a Londra, dove ora vive e scrive lentamente, faticosamente, nel suo bell’inglese, che deriva da una tradizione letteraria eccellente. Consiglio due libri. Il primo libro, che è uscito nel 2006, porta due titoli: Nessuno al mondo e Nel paese degli uomini e ha avuto ventinove traduzioni: dunque un successo straordinario. Il secondo è Un mese a Siena ( Un punto di approdo, Einaudi), che giunge nelle librerie proprio in questi giorni. Non saprei definirli romanzi o autobiografie: sono, in realtà, sia romanzi sia autobiografie; e la fusione dei due generi mi sembra perfetta. L’immaginazione di Matar è sempre intensa, complessa, ardente, attraente, come deve essere quella di un grande narratore.
Matar ci racconta quattro luoghi: Tripoli, Bengasi, Il Cairo, Siena. Ma il luogo principale è, forse, il Mare Mediterraneo, vasto e complicato come il vastissimo Islam. Ecco il mare — «la lunga vestaglia di seta, decorata col ventaglio aperto di un enorme pavone » : ecco « le scintille di luce con l’acqua che sembra gabbiani affollati intorno al cibo negato da un oceano geloso » . Ma noi non possiamo distinguere le rive del Mediterraneo da Allah — « questa luce, questa meraviglia, questa grandiosità spettacolare, questa ricchezza precisa di lingue » e dalla frase famosa di Maometto: «quando qualcuno legge il Corano, bisogna evitare di parlare: dobbiamo ascoltare umilissimi e nascondere, nascondere, nascondere i nostri peccati». Chi ha scritto il Corano ha, forse, composto anche un libro quasi equivalente con le parole di Sheherazade e di tutti gli innumerevoli spiritosissimi e divertentissimi personaggi delle Mille e una Notte.
La Libia è piena di uomini coperti di lividi e imbrattati di urina, pressati dalla necessità e bramosi di sollievo: tre milioni di analfabeti; ottomila studenti a Bengasi e quattromila a Tripoli. Ma è molto d’altro: perché la Libia è irreale, fantastica, pittoresca. Contiene una moltitudine di more, le quali sono il fiore e il frutto più bello che Dio abbia creato sulla terra: Dio si è servito degli angeli, con le grandi ali colorate: essi hanno piantato le more, che ora il giovanissimo protagonista — ha solo nove anni — inghiotte con cupidigia, immerso nella luce radiosa e terribile del mezzogiorno.
Gli angeli si occupano di tutto. Non solo di more, ma di sogni, che la madre racconta al figlio e il figlio racconta alla madre; e dei sonni profondissimi del pomeriggio — una specie di marea che ci fa entrare in un mondo sconosciuto. In Libia fa sempre caldo: un caldo diversissimo dal misero e meschino caldo d’Europa. Un ragazzo libico, Suleiman, procede come un insetto, coi gomiti sollevati fino alle orecchie, la schiena curva, i piedi arcuati: mentre pensa al grande ponte costruito sopra le fiamme dell’Inferno, il ponte che dobbiamo superare per raggiungere il Paradiso degli angeli, delle more e delle madri.
Le madri sono onnipresenti. Baciano e accarezzano i figli: li curano, li proteggono e insegnano loro tutto quello che va insegnato, — anche se non posseggono libri. Ognuna di esse è due, tre, quattro, cinque volte madre: noi, in Europa, non conosciamo nemmeno da lontano questo tipo di donne — queste donne che figliano a quindici anni e i loro riccioli restano nerissimi come il carbone quando la testa dei mariti è già completamente incanutita. Le madri hanno il compito di gettare le cose: more marce, o finite nella polvere, buone solo per le formiche, o pane usato per pulire la bocca e le mani; e le piccole ulive, liberate dai noccioli e raschiate meticolosamente dagli aguzzi denti dei bambini.
Nessuno può dimenticare che, a Tripoli e a Bengasi, vive Gheddafi, che aveva deposto il vecchio re Idris. Con estrema precisione conosciamo i particolari della sua persona: il berretto abbassato sugli occhi, come se, nel cielo, qualcosa lo infastidisca: un ciuffo di capelli neri sulle tempie, intorno alle orecchie e alla nuca, due rughe scolpite nelle guance ai limiti della bocca. Ma come si fa a chiamarlo semplicemente Gheddafi? No, no, non è semplicemente Gheddafi, ma il Colonnello Muammar Al-Gheddafi, la guida della rivoluzione popolare libica — il Benefattore, il Padre della Patria, la guida, la guida, la guida. Il suo enorme ritratto sta appeso alle pareti di ogni casa libica, più grande del più enorme pianoforte. Tutte le sere Gheddafi ascolta la televisione. Se qualcosa non gli piace per una ragione strana o incomprensibile, egli schiaccia un interruttore, e appare l’immagine di un fiore rosa, che indica l’interruzione temporanea della trasmissione. Gheddafi è, sopratutto, un fiore rosa.
Gheddafi è bellissimo: tutti lo dicono, anche i suoi più vecchi nemici. Le spalline dell’uniforme brillano di decorazioni dorate. Il cielo dietro di lui ( cielo che gli appartiene) non ha nuvole: il blu è intenso e zuccherino come l’involucro di una caramella. Gheddafi è la Rivoluzione: la Rivoluzione verde mentre quella di Mussolini era nera e quella di Hitler bruna. Le pareti degli uffici sono verde pallido, i divani sono rivestiti di stoffa di un verde leggermente più scuro — fino a corteggiare il verde intenso del purissimo Islam: l’Islam di Maometto. Gheddafi perseguita e uccide. Quando catturò un avversario, la guida gli si sedette accanto dolcemente e gli disse dolcemente: « perché volevi uccidermi figlio mio? Mio carissimo? » L’avversario implorò perdono; e con dolcezza, soavità, amabilità, tolleranza, Gheddafi lo perdonò all’istante, col cuore pieno di un amore incontenibile. Ma lo stesso Gheddafi ha un altro aspetto, perché perseguita e uccide; e se gli oppositori si ribellano, stampano volantini, preparano sedizioni, si raccolgono in piazza, ecco che il Colonnello li fa impiccare agli alberi con corde insaponate. Le piazze di Bengasi e di Tripoli sono piene di persone appese agli alberi per il collo e i piedi, come tanti anni fa accadde a piazza Loreto, a Benito Mussolini e a Claretta Petacci.
Il secondo libro, Un mese a Siena, è molto più lieve. Qui, non incontriamo dittatori e impiccagioni, ma città, borghi, quadri, contrade. Come scrive Hisham Matar, « il gioco di rimandi tra esterni discreti e interni sontuosi, tra la quieta serenità fuori e una studiata e pensosa dentro, e una faccia modesta e mite che nasconde un cuore ardente, è un vezzo senese, un trucco da illusionista che la città ama giocare con se stessa ».
Siena è una città antica: la Repubblica risale al 1125; le prime case al dodicesimo secolo; e le mura sono, nello stesso tempo, un confine fisico e un confine spirituale. La Piazza del Campo è il cuore, il gheriglio della città. Vi avvengono le tumultuose corse dei cavalli delle diverse contrade. L’Accademia Musicale Chigiana ha splendide decorazioni nei soffitti: qualche volta, sembrano medaglioni da portare amorosamente intorno al collo. Duccio da Boninsegna è un grandissimo pittore: il nostro libro comprende una Guarigione del cieco (a Londra) e la Madonna dei francescani (alla Pinacoteca).
Appena meno belli sono l’Allegoria del buon governo e gli Effetti del cattivo governo di Ambrogio Lorenzetti, nel Palazzo Pubblico, proprio nel cuore della città. Poi c’è la Madonna del latte, sempre di Ambrogio Lorenzetti: Maria ha un’espressione placida e un’apparenza assente, mentre posa gli occhi sul figlio con una rassegnazione maliziosa. Il velo le si attorce attorno al collo: le dita della mano sinistra sono strette intorno alla piccola spalla sinistra del Bambino che « si gira verso di noi con uno sguardo ironico » , mentre con la mano destra il Bambino ha lo strano desiderio di strapparsi via le sontuose aureole dorate. Nell’Angelo annunciante di Sano di Pietro, gli occhi amorevoli, malinconici e desolati fissano l’invisibile. « Non so perché — dice Matar — più guardavo l’Angelo annunciante e più forte sentivo un dolore nel petto, come se anelassi a una persona lontana o a un luogo o un tempo lontanissimi».
Non ci meravigliamo se tutte le linee e tutti i colori culminino nel Paradiso di Giovanni di Paolo, dipinto attorno al 1445, quasi un secolo dopo la Peste Nera. Siamo arrivati nell’aldilà. Quattordici coppie si avvicinano tra loro: tutto è coloratissimo, folto, affettuoso: ognuno stringe le mani di un altro. All’orizzonte si intravedono delle file di alberi di mele che schermano il cielo, appesantite dai frutti. Cosa dobbiamo fare insieme ad Hisham Matar? Guardare attentamente le mele una per una, come se ognuna di esse fosse un cosmo colorato? Oppure afferrarne una, due, tre, e mangiarle dolcemente, come se mangiare una mela faccia entrare nell’inattingibile Paradiso?