Possono i colori cadere in disgrazia? Possono essere considerati per secoli simboli di luce, ricchezza, potere e immortalità e poi, a un certo punto, mutare radicalmente significato e diventare emblemi di falsità, malattia, follia e tradimento? La risposta è sì. E l’esempio di un clamoroso caso di mutazione simbolica si trova nel bel libro che Michel Pastoureau ha riservato al giallo, ultimo di una serie di intriganti monografie che lo studioso francese ha specificatamente dedicato a storia, scienza e curiosità dei principali colori della tavolozza: il blu, il nero, il verde e il rosso.
Del colore giallo Goethe ebbe a scrivere così: «Possiede una qualità dolcemente stimolante, di serenità e di gaiezza. Si mostra però estremamente sensibile, producendo un’immagine sgradevole quando è sporco… È sufficiente un leggero e impercettibile movimento per farne il colore dell’infamia, della ripulsa e del disagio».
Le ragioni che hanno portato il colore giallo a essere così ambivalente e a trasformarsi da splendido araldo di serenità e gaiezza a cupo manifesto di negatività sono ampiamente spiegate nel libro di Pastoureau, nel quale conviene ora avventurarsi.
Lo studioso osserva innanzitutto che il giallo (come gli altri colori) diventò una categoria cromatica a sé stante dopo che i nostri antenati lo associarono saldamente a realtà naturali quali l’oro, il grano, il miele, l’olio, la cera, le ginestre, i limoni, eccetera. Da qui prese forma la simbologia positiva del colore, che divenne emblema di ricchezza, calore e prosperità.
Gli uomini del Paleolitico (30mila anni prima di Cristo) furono i primi a farne uso come pigmento: lo ricavarono dalle terre argillose ricche di ocre e lo usarono per dipingere gli animali sulle pareti delle grotte (come, ad esempio, a Chauvet in Francia). Poi, con il sopraggiungere dell’età dei metalli, arrivò l’oro, che venne associato al colore del sole e fu offerto agli dei, tesaurizzato nei templi e deposto nelle sepolture. Oro e giallo diventarono per molto tempo la stessa cosa per egizi, greci e romani. L’oro si impiegò a piene mani nelle tombe dei faraoni, le tinte giallo-oro caratterizzarono la pittura vascolare greca e la pittura parietale romana. In latino l’aggettivo aureus non indicava esattamente l’oro, ma il giallo caratteristico dell’oro. Questo colore venne anche associato al culto del sole e della divinità classica: Apollo, il dio della luce che dissipa le tenebre, veniva sempre rappresentato, in dipinti e mosaici, con fluenti capelli biondi.
Però è proprio il veneratissimo giallo-oro a offrire le prime avvisaglie di un ribaltamento semantico. L’oro – meditarono gli antichi – generava avidità, cupidigia, furti, violenza, guerra e tradimenti, e la mitologia classica mise in campo molti esempi per dimostrare il concetto, dal mito dell’età dell’oro, ai pomi del giardino delle Esperidi, alle peripezie legate al vello d’oro, alle vicende di re Mida, fino alle storie (extra mediterranee) dell’oro del Reno nella saga dei Nibelunghi.
Nonostante questi innesti di negatività, il giallo continuò comunque a prosperare. Usando lo zafferano come colorante, si tinsero abiti di grande eleganza destinati ad abbigliare le nobildonne dell’Urbe, e non è un caso che quando i romani rappresentavano la Dea Flora (signora dei fiori e della primavera) la abbigliavano con mantelli di colore giallo. Di più. Da Cicerone apprendiamo che il giallo era la tinta tipica ed esclusiva degli abiti femminili: volendo egli denigrare come effeminato il suo acerrimo nemico Publio Clodio Pulcro, scrisse che costui si aggirava abbigliato in vesti di colore giallo.
Se i greci disponevano della parola xanthòs per indicare in modo onnicomprensivo il giallo vivo e luminoso, e assai raramente attingevano a parole come ochros (giallo ocra), chloros (giallo verdastro), chrysos (giallo oro), melinos (giallo) e krokinos (giallo zafferano), i romani – al contrario – non possedevano nel lessico una parola generica che indicasse il giallo. Usavano cruceus per indicare il giallo zafferano tendente all’arancione, luteus per il giallo dei vegetali (tipo le ginestre), melleus il giallo del miele, vitellus il giallo dell’uovo, flavus per indicare tutto ciò che matura al sole e chi ha i capelli biondi, ed aureus per indicare, appunto, il giallo dell’oro. Interessante apprendere che l’opposto di aureus era ludidus, parola che indicava un giallo sporco e impuro da usare per qualificare la bile, la pelle malata, le piante appassite e le stoffe di scarso valore. Ma per indicare un giallo “brutto” si usava anche un’altra parola: galbus. Ebbene sarà proprio questo termine marginale e negativo ad avere grande fortuna: diventerà il giallo degli italiani, il geld dei tedeschi, il galben dei rumeni, e via di questo passo.
A far cadere in disgrazia il giallo contribuirono vari fattori, a cominciare dalla Bibbia, che praticamente non considerò mai questa parola. I Padri della Chiesa, dal canto loro, si concentrarono soprattutto sull’oro per capire se fosse “luce” o “materia”, o disquisire se fosse lecito o meno usarlo nel culto e nella vita della Chiesa. Sappiamo che i Padri diedero il via libera al giallo e il Medioevo cristiano s’ammantò di oreficerie, dipinti, mosaici e stoffe nei quali si fece largo uso dell’oro. Eppure, proprio durante il Medioevo, il giallo cominciò ad assumere un significato sempre più equivoco. Il giallo non entrò in alcun modo a far parte dei colori usati nei paramenti liturgici cristiani (che sono rossi, bianchi, neri e verdi), mentre l’apostolo traditore, Giuda, compare nei dipinti sempre vestito di giallo: il colore diventa il simbolo del più alto tradimento. Certo, il giallo lo vediamo negli stemmi e nei blasoni dei cavalieri medievali, ma solo perché era considerato un surrogato dell’oro. E comunque assunse sempre più significati negativi: non solo i traditori, ma anche i ciarlatani, i folli e i collerici vennero contraddistinti dal colore giallo delle vesti. Per non parlare dei “perfidi” giudei e della loro “stolta” Sinagoga, sempre identificabili con questo colore (da qui deriva, ahinoi, anche la famigerata stella gialla usata dai nazisti per discriminare i figli di Israele).
Bisogna altresì sottolineare che ottenere il colore giallo non fu mai tecnicamente molto facile, e bisognerà attendere addirittura l’età barocca per vederlo davvero risaltare all’interno dei quadri. È lo stesso periodo in cui Newton cataloga i colori.
A esaltare definitivamente la bellezza del giallo sono stati i pittori tra Ottocento e Novecento (pensiamo a Van Gogh e a Cézanne), mentre in altri campi questa tinta ha continuato a mantenere forti valenze simboliche. Il giallo può essere ad esempio simbolo di vittoria (la maglia gialla del Tour de France) e di protesta (i gilet gialli parigini); oppure segnale di allerta e ammonimento, come avviene per il cartellino giallo dell’arbitro o, più comunemente, per il colore intermedio del semaforo. Può altresì servire a favorire la visibilità, come nel caso dei taxi o delle cassette della posta, anche se qui il colore giallo ha origini diverse e meno prosaiche: deriva infatti dagli stemmi araldici dei Thurn und Taxis, la casata italo-tedesca che inventò il servizio postale e i trasporti pubblici in Europa.
Giallo. Storia di un colore
Michel Pastoureau
Traduzione di Guido Calza
Ponte alle Grazie, Milano,
pagg. 240, € 32
Marco Carminati