Oggetti quotidiani, vestiti, giocattoli. Il Palazzo delle Esposizioni dedica una mostra antologica all’artista americano Tra happening, divertimento e citazioni dalla vita reale
di Achille Bonito Oliva
La linea sintetica dell’arte contemporanea comprende quegli artisti che utilizzano il linguaggio secondo un procedimento metaforico e di rappresentazione: l’immagine come sintesi del fuori. Tale lavoro è imperniato su tutta una serie di richiami all’esterno che costituiscono, appunto, il nucleo del procedimento metaforico. La rappresentazione è il momento focalizzante della dialettica tra l’io dell’artista e l’oggettività del mondo, dove il mondo, paradossalmente, è la polarità privilegiata perché costituisce lo spazio esistenziale da cui nasce l’urgenza dell’opera. Secondo una coscienza globale e profonda che scardina la specificità del linguaggio artistico per sconfinare nel territorio totale della creatività.
Lo conferma la grande retrospettiva di Jim Dine al Palazzo delle Esposizioni di Roma con opere dal 1959 al 2018, a cura di Daniela Lancioni (fino al 2 giugno). Nella sua ricerca la creatività si esercita come raccolta e conservazione di segni del quotidiano, assemblati e conciliati dalla cifra stilistica di una pittura e scultura, il gesto che fa da collante, rassicurante e rituale. L’opera, commistione di elementi pittorici ed extrapittorici, come nel combine di Rauschenberg, diventa la soglia che non si può varcare, nello stesso tempo il tentativo di pareggiare la qualità estenuata ed aristocratica dell’arte e la quantità ammassata di reperti ed immagini fugaci trafugate dal contesto della civiltà industriale e specificamente dallo spazio urbano.
La generazione di Jim Dine (nato nel 1935) succede a quella dell’action painting, in cui il rituale del gesto serviva ad esorcizzare la realtà e a risalire all’origine organica e dinamica della vita. Soltanto il gesto dell’arte poteva attrarre nel proprio gorgo il movimento disperante dell’uomo, il quale realizzava per sé, in tempi contratti e separati, i paradisi totalizzanti e i cicli della propria umanità. Al di fuori dei momenti di globalità l’artista viveva calato nella dimensione quotidiana, senza riuscire a superare la separatezza tra uomo e uomo e tra l’uomo e le cose. Però aveva compreso che la discontinuità dell’esistenza non è la conseguenza di una crisi universale, ma la messa in discussione del principio occidentale di simmetria. Il caos visibile che riproduce fedelmente il movimento sotterraneo del mondo. Dunque bisognava accettare una vita permanentemente sbilanciata ed aperta a tutti i flussi possibili. Soltanto in questa accettazione il gesto dell’arte poteva mettersi in sintonia con il movimento universale e cogliere epifanicamente grumi di vera e complessa esistenza. Perciò lo scacco non partiva da un sentimento frustrato, ma dalla consapevolezza che solo nel momento del gesto si costituiva una sincronia effettiva col mondo ed i tempi del suo muoversi.
Con il new dada, la generazione di Dine si attesta in una zona neutra tra l’arte e la vita, tra la forma e l’organico, facendosi rappresentare direttamente da spezzoni del mondo, recuperati ed immessi nella dimensione dell’arte. Così l’opera si sposta sul versante della storia, tentando uno scandaglio precario del paesaggio artificiale della città. La forma diventa il possibile aggiustamento che l’artista può permettersi della realtà totalmente mercificata in cui, secondo il pensiero doloroso di Rilke, l’uomo tra le cose è posto come una cosa infinitamente sola. All’arte come assoluta rappresentazione, ora si risponde con una mentalità che tende a cogliere il mondo nelle sue orizzontali secrezioni. Un mondo che si presenta, come nella dimensione onirica, con una mancanza di necessità apparente ed una continua polluzione di immagini che si riproducono senza alcuna difficoltà. La civiltà tecnologica si configura come un sogno, per la produzione automatica dei beni di consumo che ne invadono senza richiesta il campo d’azione. Dato il meccanismo strutturale del sistema produttivo, le immagini della città vengono accettate nel loro improvviso narrativo come reali. La tecnica del sogno diventa il tramite necessario per leggere la città e le sue imprevedibilità: nel sogno generalmente l’oggetto conta per la sua capacità di diventare superficie, visione, mentre i contenuti sono considerati soltanto quando di per sé costituiscono uno svelamento. Come dimostrano Four Soap Dishes, The Farmer, Putney Winter Heart, The Studio.
E come nel sogno le immagini si presentano senza motivazione apparente così la città propone un campo di oggetti, il cui ciclo produttivo sfugge all’uomo che ne deve subire la presenza. Il new dada accetta come ineluttabile tale condizione di continuo estraniamento e la perdita di peso del prodursi delle cose. Accetta la perdita di profondità e sceglie di operare in superficie. Allo spessore dell’action painting, a quella che Merleau-Ponty definisce la ” voluminosità primitiva del dolore”, il new dada sostituisce lo splendente accumulo di segni del quotidiano che mimano la vorace vitalità della produzione e del consumo. Ma produzione e consumo riguardano anche le zone permeabili della soggettività, le cifre emotive dell’individualità, mosse in quelli che Mittscherlich chiama ” i percorsi d’angoscia” del feticcio urbano. La città moderna fatta di accumulo e distribuzione di funzioni, di opulenza e obsolescenza, di sculture verticali e ghiacciate come i grattacieli e dell’oscura traccia orizzontale dei ghetti, di una vita esibita sotto il segno dell’impersonalità e dell’inespressivo e nello stesso tempo di una vitalità battuta ed incontenibile.
Dunque un’arte tipicamente urbana che però non si limita al recupero dei reperti della produzione industriale e dei suoi modi di produzione, ma ha dentro anche un atteggiamento mentale che viene dalla cultura orientale, dallo zen e dal buddismo. L’idea del modulo. Il modulo è l’unità di misura, lo standard, la rappresentazione concettuale e infinitesimale di un infinito geometrico. Un infinito costituito dalla megalopoli, estensione quantitativa che trova proprio nella quantità il proprio valore. Così il grattacielo diventa il modulo, a misura urbana e non più a misura d’uomo.
Infatti il grattacielo, più che essere abitato, è adibito non ad esibire il domestico e il privato, ma il pubblico e il produttivo: la trasparenza dei cristalli che ne fasciano la struttura. La mentalità zen si rivela invece nello studio e nella rivalutazione della fissità dei materiali, ma anche nel considerare la città come un insieme, un sistema di relazione dove il singolo scompare. E il singolo trova esistenza solamente attraverso la propria presenza specializzata. Il lavoro diventa l’unico tramite che l’uomo può stabilire con la realtà urbana. Anche l’arte è lavoro, ma allo stesso tempo riscatto. Il gesto verticale e palpitante della creazione contro lo spazio negativo e cannibalesco della città: l’Urlo di Ginsberg, il cut- up di Borroughs, gli interminabili bicchieri di whisky di una generazione che adotta il bere come tattica per non uscire dalla propria esperienza e non cadere battuta nelle trame soffocanti del quotidiano. Dine sa bene di non poter riscattare, né riscattarsi attraverso l’arte, ma di fondare una realtà relativa, quella dell’opera, dove confluiscono gestualità e misura, casualità e progetto formale, in una dialettica che arricchisce uno spazio, quello della vita, dove predominano alternati uno degli elementi: centro o periferia, geometria o informe, serialità splendente o abbandono del detrito.
L’oggetto, il ready-made di Duchamp, viene sottratto alla sua metafisica concettuale e riportato nella materialità delle relazioni con il mondo. Secondo un’orizzontalità che avviene per sequenza e precarietà. L’opera è letteralmente stipata di materiali ed elementi, caduti nel disuso e nell’obsolescenza. Come l’immaginario infantile della favola: Red Gloves, Yellow Shirt, sorprendente celebrazione del nostro Pinocchio.