Quando l’arte balla con le dittature

Desert X, una mostra occidentale nel deserto saudita, riapre il dibattito La cultura deve rifiutare i finanziamenti degli stati non democratici?
di Francesco Bonami
Pecunia non olet .
Il denaro non ha odore. Nel mondo e nel mercato dell’arte, poi, il denaro risulta assolutamente inodore come il monossido di carbonio, che, però, è anche letale. Se nella geografia del contemporaneo si dovesse tirare una linea oltre la quale non fosse più possibile beneficiare di sponsorizzazioni, donazioni o guadagni puri e semplici, il confine della nostra nuova morale, probabilmente, si fermerebbe a est a Trieste e a sud attorno a Pantelleria. Anche a ovest, però, le proteste contro i filantropi americani di musei e istituzioni certificano che il territorio dell’etica rischia di essere molto limitato. Lo dimostra il caso della famiglia Sackler, proprietaria della ditta farmaceutica Purdue Pharma, rimossa dalle pareti di quasi tutti i musei del mondo per aver venduto come fossero aspirine oppioidi mortiferi sotto forma di antidolorifici. Oppure delle persone recentemente cacciate dai consigli di amministrazione di tante istituzioni culturali, perché colpevoli di essersi arricchite investendo in gas antisommossa e altri strumenti destinati a tenere sotto controllo “eccessi di democrazia” in alcune potenti – ed economicamente essenziali – nazioni del mondo.
Insomma, chi è senza peccato scagli la prima pietra. Tuttavia qualche domanda in certi casi dovremmo porcela e qualcuno dovrebbe imporsi dei limiti. Alcuni tra i paesi che oggi adottano principi democratici molto relativi sono anche gli stessi che più investono in cultura e che più acquistano nel mercato dell’arte. La maggior parte di questi prova a indossare la maschera di “pseudo–democrazia”. L’Arabia Saudita, però, non si sforza nemmeno in questo senso. Tuttavia l’arroganza sembra pagare. Non mancano infatti imprese culturali – ma anche club di calcio – pronti ad accettare con piacere gli inviti dei sauditi a contribuire all’industria dell’intrattenimento e della cultura locale. Che si tratti di artisti, archistar, curatori, calciatori o allenatori, questi trovano sempre qualche scusa buona che giustifichi la loro presenza in un Paese che impone leggi e punizioni – alle donne in particolare – impensabili e inaccettabili in un sistema democratico.
Una polemica eclatante è recentemente scoppiata contro gli organizzatori e i curatori della mostra a cielo aperto Desert X , una sorta di Biennale del deserto, nata per la Coachella Valley, in California, e aperta fino al 7 marzo nella spettacolare oasi di Al Ula, vicino Medina, in Arabia Saudita. Si tratta di quattordici installazioni firmate da altrettanti artisti – molti sono occidentali – sparpagliate fra le spettacolari rocce del deserto. L’influente critico del
Los Angeles
Times Christopher Knight ha definito la mostra «moralmente corrotta», mentre tre membri del consiglio di amministrazione dell’organizzazione Desert X si sono dimessi in segno di protesta. Gli artisti invitati – tra cui molte donne – chiaramente con la coda di paglia si sono difesi sostenendo che la partecipazione a questo progetto è un modo di portare la democrazia e – figuriamoci un po’ – di celebrare l’influenza culturale delle donne nel mondo islamico. Tanto per rallegrare la situazione, il gruppo di artisti danesi Superflex ha installato delle altalene dove pare possano dondolarsi anche le signore. I curatori – l’inglese Neville Wakefield e le saudite Raneem Farsi e Aya Alireza – salomonicamente hanno dichiarato che una mostra come questa rappresenta un dialogo degli artisti con il paesaggio, paesaggio che, per sua natura, non sceglie di trovarsi in una nazione o in un’altra. Una iniziativa del genere «travalica i confini e il tempo », ha dichiarato la curatrice Farsi. Le autorità saudite non commentano, osservando probabilmente divertite lo spettacolo: sia quello effettivamente eccezionale del paesaggio e di alcune opere d’arte, che quello delle polemiche dalle quali non vengono nemmeno sfiorate. Ma la partnership tra la California e l’Arabia Saudita è destinata ancora a far discutere.
Ai tempi dell’apartheid, il mondo dell’arte e della cultura non metteva piede in Sudafrica e gli artisti subivano l’isolamento del proprio Paese, spesso senza avere alcuna responsabilità. In Arabia Saudita in modo eclatante e in altri paesi della stessa area geografica in maniera meno sfacciata, esiste di fatto un sistema di apartheid contro cui, per qualche motivo, si tende a chiudere un occhio e a volte, come nel caso di Desert X , anche due.
Questa storia dimostra che, davanti a certe offerte, il mondo dell’arte contemporanea dovrebbe tornare come ai vecchi tempi a porsi delle domande e a prendere qualche posizione decisa. Non solo contro i colpevoli e cinici filantropi del mondo occidentale, ma anche contro gli imperdonabili licantropi dei diritti e della dignità umana. Noi curatori dovremmo provare a curarci da quella malattia che chiamerei la “sindrome di Lawrence d’Arabia”. Non tutto può essere una bella avventura.
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