L’editoriale di Tommaso Di Francesco sugli effetti del coronavirus non può essere ignorato. Per due motivi. Il primo è che questa sinofobia imperante si sposa con una sorta di rivalsa che l’Occidente. Come dire: avete visto, anche voi siete vulnerabili e la vostra crescita economica non è infinita, e noi possiamo ancora battervi. Ma, c’è dell’altro che va oltre la cronaca di questi giorni. Il “pericolo giallo” avvertito e denunciato in Occidente ha una lunga storia alle spalle. Riguarda il nostro storico rapporto con la Cina, la nostra visione e percezione di questo misterioso paese.
Il “pericolo giallo” è stato presente nella letteratura nordamericana grazie ad alcuni racconti di Jack London, ed era molto diffuso in Occidente già agli inizi del Novecento, quando i cinesi vennero dipinti come «brutti, sporchi e cattivi» e furono spesso oggetto di attacchi razzisti nelle diverse Chinatown sparse nel mondo.
Anche Mussolini parlò più volte di «pericolo giallo» pensando ad una guerra tradizionale dove era decisivo il numero dei soldati-baionette da schierare, e la Cina un secolo fa contava quasi un quarto degli abitanti del nostro pianeta (oggi un quinto). E c’è un’altra percezione occidentale della Cina che ha dell’incredibile: i cinesi visti come formiche. Di nessun altro popolo si è detto o scritto in questo modo. E non è una questione di numeri perché l’India ha quasi raggiunto la Cina come popolazione, ma nessuno si sognerebbe di dire che gli indiani sono come le formiche. Da dove viene questa percezione solo occidentale?
Probabilmente dalla loro organizzazione del lavoro, disciplina e regia, che ha una lunga storia alle spalle e che ha permesso alla Cina imperiale di realizzare opere grandiose – dalla grande muraglia, alle canalizzazioni, ai 5mila guerrieri di Xian – che nessun altro popolo è stato in grado di organizzare. E ancora oggi l’efficienza produttiva cinese ci mette in crisi: il nuovo ospedale di Wuhan, per oltre mille posti letto, è stato costruito in dieci giorni.
Per noi italiani è sconvolgente solo se pensiamo ai tempi dell’adeguamento della Salerno-Reggio Calabria o alla ricostruzione dell’Aquila. Il secondo riguarda proprio questo giornale che ancora si dice «comunista», nato su un profondo dissenso rispetto all’analisi dell’Urss che faceva il Pci negli anni ’60, mentre oggi il nodo all’ordine del giorno è il paradosso cinese, ovvero del più grande partito comunista al mondo che governa un paese che sembra aver abbracciato in toto il modello di sviluppo capitalistico.
Il manifesto è rimasto, con gli articoli di Simone Pieranni (penso anche al prezioso inserto In Asia), l’unico giornale che assuma la Cina come tema che ci riguarda direttamente – ricordo che era il cuore dell’ analisi che Angela Pascucci ci ha lasciato in eredità; ma il resto dei media e degli intellettuali e politici di matrice marxista, o solo di sinistra, non si cimentano più con il paradosso cinese.
Dopo lo stimolante volume di Giovanni Arrighi “Adam Smith a Pechino”, che io sappia nessuna analisi di livello teorico è emersa. Piuttosto, è venuta fuori una sorta di banalizzazione che identifica la Cina con un qualunque paese capitalistico. Giovanni Arrighi, attraverso una lettura corretta del pensiero del fondatore dell’economia politica moderna, ha posto una prima pietra che fa la differenza tra un qualunque paese capitalistico e la Cina: il ruolo dello Stato.
Arrighi riprende Marx che giudica lo Stato in un paese capitalistico come «comitato d’affari della borghesia», mentre in Cina è determinante il ruolo autonomo dello Stato e del partito comunista che lo controlla. Si potrebbe ancora riprendere la categoria leniniana della Nep (Nuova politica economica) che manteneva in vita la piccola e media impresa, valorizzava il lavoro dei tecnici, come necessità rispetto ad un paese che era ancora arretrato sul piano dello sviluppo industriale e delle infrastrutture.
Ma, la dirigenza cinese è andata oltre permettendo la creazione di grandi imprese private, di speculatori finanziari, e creando un relativamente vasto ceto medio che si stima vicino ai cinquecento milioni di consumatori, facendo aumentare in maniera spaventosa le diseguaglianze tra città e campagna. Grazie alla Cina l’Occidente è uscito indenne dal crollo delle Borse nel 2008.
Non solo perché Pechino ha usato il surplus della sua bilancia commerciale per comprare bond Usa, ma soprattutto per un fatto che è diventato strutturale e pochi conoscono: il contrasto dell’inflazione. Se la Fed prima e la Bce dopo hanno potuto stampare migliaia di miliardi di dollari ed euro senza che scoppiasse l’inflazione dei prezzi è stato grazie all’importazione di beni dalla Cina che ha funzionato da calmiere sui mercati occidentali. Questi sono solo spunti di riflessione, meriterebbero altro spazio ed altre competenze. Ma tornare ad interrogarci anche teoricamente sulla Cina è necessario, più che mai.