di Roberto Barzanti
Un mantra viene ripetuto ossessivamente in questi giorni qua e là, in Toscana e non solo, con una rozzezza che gli dà il sapore acre di un truce slogan elettoralistico. Il nemico principale contro cui battersi è il «pensiero unico», del quale si sarebbe stati prigionieri per decenni.
Anche nella manifestazione andata in scena, dopo Arezzo, a Siena, al Santa Maria della Scala, sono state lanciate dagli organizzatori accuse di fuoco contro il «pensiero unico» che avrebbe bloccato la lotta politica e la libertà di espressione. Per giustificare il sostegno accordato dal Comune all’effettuazione della performance circolante sui casi di Bibbiano e all’introduttiva presentazione di due pamphlet di Diego Fusaro e Antonio Socci si è declinato lo stesso grido: è finito il tempo del «pensiero unico»! Da parte di taluni estremisti si è arrivati a dire che dal dopoguerra in poi Siena, come la stragrande maggioranza delle città toscane, è stata dominata da un’omologante filosofia tesa a impedire — nientemeno per settant’anni filati — pluralismo delle idee e democraticità del confronto. Insomma un pensiero monolitico si sarebbe tradotto massicciamente in sistema di potere con un’invasività perfino più insidiosa di quella sperimentata con l’atipico totalitarismo fascista. Non so se chi si fa portatore o replicante di simili giudizi si rende ben conto di ciò che va affermando. Offende non una parte, ma un’intera regione, che in tutta la sua storia è stata vitalmente e/o drammaticamente caratterizzata da dure contrapposizioni, da divisioni marcate, da energiche battaglie condotte alla luce del sole.
Alla guida del Comune di Firenze ricordiamo uomini come Bargellini e Fabiani, La Pira e Lagorio, e non sto a elencare altri nomi più vicini a noi. A Siena nel dopoguerra si sono avute al Comune tre gestioni commissariali: come altri centri è stata sempre in bilico tra una classe dirigente agraria, impiegatizia, mercantile e un ceto dirigente intellettuale o forgiato dalle lotte sindacali della campagna. Se l’area oggi definibile di centrosinistra ha conquistato sedi di governo o ha costruito solide esperienze economiche il fenomeno non è avvenuto per macchinazioni diaboliche, ma per la capacità (decrescente) di interpretare e rappresentare le domande della popolazione e dell’imprenditoria dinamica ed è stata discussa, sancita o corretta in fior di consultazioni elettorali. È talmente falsa l’accusa di aver imposto un pensiero unico che basterebbe ripercorrere i dibattiti interni ai vari partiti per allontanare l’esecrato fantasma.
I socialisti quando mai sono stati una schiera irreggimentata in uno stesso ordine? Lelio Lagorio e Valdo Spini sono stati sulla stessa linea? E i cattolici impegnati in ruoli pubblici o alla testa di organismi di volontariato, nella direzione di vivaci riviste hanno formato una squadra compatta al comando di un occulto inner circle ? Il democristiano La Pira non era di sicuro in sintonia con il profetismo di padre Balducci. Il fanfanismo egemone era del tutto divergente dalle aperture di un Nicola Pistelli. E tra i comunisti Mario Fabiani e Romano Bilenchi non parlavano la stessa lingua degli stalinisti più espliciti. Voci liberaldemocratiche quali Il Ponte non hanno espresso un peculiare e stimolate contributo? Le cronache di oggi è sufficiente sfogliarle. Semmai si assiste a babeliche risse che ostacolano ogni decisione. La corporativizzazione settoriale degli interessi ha raggiunto livelli che seminano sfiducia. Spesso non solo non si ascoltano tracce di un pensar coerente, ma è difficile rinvenire autentiche riflessioni contemporanee. Se c’è un’ideologia che punta, non solo in Italia, a proclamare l’avvento obbligato di una sola trionfante weltanschauung alimentata da impermeabili marchingegni tecnologici e da avidi giochi finanziari è quella che fonde neoliberismo e protezionismo, demagogia populista e nazionalismi armati. Contro questa «glebalizzazione» è assurdo innalzare le bandiere di una sovranità chiusa e isolata.
E fa specie che a farsi portavoce della rovinosa illusione siano tanti che pur muovono da un universalismo cristiano. Per sconfiggere l’immiserimento spirituale e materiale e l’odio dalle venature razzistiche occorre ritrovare una leale voglia di un pacato dialogo. Anche sui temi lanciati dall’impropriamente denominata teoria del gender, caricaturati ad arte, è sbagliato farne oggetto di vocianti dimostrazioni di piazza. Ai pensieri, anche a quelli sorprendenti e irti dei nostri giorni inquieti, è salutare opporre alternative di pensiero. Non dimenticando che tutti siamo di fronte a sfide inedite, che non possono essere affrontate con fanatismi da crociata e neppure riproponendo un fazioso laicismo che ha collezionato dolorosi fallimenti.