Le prime foto inedite di Sebastião Salgado per salvare il polmone verde del nostro Pianeta
dalla nostra corrispondente Anais Ginori
PARIGI Seduto davanti a una scrivania coperta, Sebastião Salgado scarta le immagini a una a una. « Questa no, questa no…». Il colpo d’occhio dura pochi secondi. Ogni tanto si ferma su una foto in bianco e nero per misurarla con la squadra. «Guarda le mani», dice a Françoise, la photo editor complice di tante avventure. « Stiamo facendo una seduta di sciamanismo » , scherza con il suo francese musicale, non ha perso l’inconfondibile accento brasiliano nonostante sia arrivato a Parigi nel lontano 1969. L’agenzia Amazonas Images è affacciata sul canal Saint-Martin, dove gli studenti vengono a prendere il sole settembrino. Salgado ci porta in un’altra stanza dove sono appesi ritratti di indiani dell’Amazzonia, vuole mostrarci alcuni scatti del suo nuovo, monumentale progetto, « ho ancora migliaia di fotografie da visionare » , anni passati a viaggiare nella più grande foresta tropicale del mondo e a cui il fotografo brasiliano di In cammino e Genesis dedicherà presto una mostra.
«Voglio fare qualcosa di innovativo, con delle proiezioni, dei concerti. È un’idea di Lélia», racconta citando l’inseparabile moglie con cui ha condiviso tutto da oltre cinquant’anni, sin da quando era studente di economia. Gli alberi maestosi si specchiano nei fiumi, le forme incredibili delle nuvole, «questa sembra un drago», la luce che taglia l’orizzonte, «è un cielo che non esiste da nessuna altra parte».
L’Amazzonia brucia e il presidente brasiliano Jair Bolsonaro è complice del disastro ecologico, resta indifferente agli appelli del mondo. « Aspetta, facciamo un passo indietro » , commenta Salgado, settantacinque anni, con la sua aria da vecchio saggio, un cespuglio irsuto di sopracciglia bianche sopra agli occhi azzurri. Si alza per cercare una cartina dell’Amazzonia. Indica le riserve indiane protette, i parchi nazionali tutelati dal ministero dell’Ambiente. «Queste zone per fortuna sono ancora relativamente preservate e rappresentano oltre metà della foresta». È sui territori statali, le terras devolutas, prosegue Salgado, che si concentra la devastazione.
Che cosa ha pensato vedendo le immagini degli incendi?
«Sapevamo che sarebbe successo. La foresta tropicale non brucia facilmente perché è rigogliosa, il legno è fresco, bisogna prima abbatterlo e aspettare che secchi. E quindi erano mesi che si preparavano gli incendi, tutti ci eravamo accorti di un’accelerazione nel disboscamento che purtroppo non è nuovo. Negli ultimi cinquant’anni è stato distrutto quasi il venti per cento dell’Amazzonia.
Bolsonaro non fa altro che continuare in modo ancora più brutale. Dall’epoca della dittatura militare è stata promossa una politica di colonizzazione delle terras devolutas, abbattendo foreste, costruendo immense fattorie. E anche dopo l’arrivo della democrazia si è continuato. Ci sono stati governi più complici, altri che hanno solo fatto finta di niente.
Ora Bolsonaro è più pericoloso perché vuole destabilizzare anche le zone finora preservate».
Chi sono i colpevoli?
«Bolsonaro ha detto in campagna elettorale che bisognava allargare la superficie abitata e coltivata dell’Amazzonia. Non appena è arrivato al potere ha tolto tutti i tecnici del ministro dell’Ambiente sostituiti da militari di sua fiducia. Ha eliminato la legge che puniva i responsabili di deforestazione. E poi ha tagliato i fondi al Funai, l’organismo statale che si occupa delle riserve degli indiani che rappresentano territori grandi due volte e mezzo la Francia. Non c’è niente di casuale, tutto è stato pianificato. Anche il momento in cui scatenare gli incendi. È stato fissato il giorno del fuoco».
Sta dicendo che c’è stato un coordinamento?
«Certo, tutte le fattorie dell’Amazzonia sono collegate via radio, con la regia di gruppi dell’agroalimentare di destra o estrema destra che hanno votato per Bolsonaro. L’altra forza destabilizzante per l’Amazzonia sono le sette evangeliche che vogliono convertire gli indiani, pensano di catechizzare queste anime. Bolsonaro e sua moglie fanno parte di una setta, rappresentano anche questo elettorato».
Anche la sinistra, il Partito dei lavoratori, ha delle colpe?
«Il Brasile è l’unico Paese al mondo in cui la classe operaia è arrivata al potere senza la lotta armata. La vittoria di Lula nel 2003 è stato un grande momento.
Lula ha fatto tante cose per dare più tutele agli indiani in Amazzonia anche se non ha saputo cambiare davvero il modello produttivista dell’industria agro-alimentare. Né lui, né Dilma Rousseff».
Lula adesso è in carcere, fatica a esserci una vera opposizione a Bolsonaro.
«All’epoca ho sostenuto Lula come tante altre persone di sinistra ma oggi sono duro con lui perché ha compiuto tremendi errori. Il più grave è essersi intestardito a essere il candidato del Partito dei lavoratori l’anno scorso, nonostante fosse ovvio che sarebbe finito in galera. Il Pt avrebbe potuto vincere le elezioni. Lula non lo ha permesso, ha tenuto il partito in ostaggio. E quando finalmente c’è stato il via libera alla candidatura di Fernando Haddad, che per me è fantastico, era già troppo tardi, non c’era più tempo di fare campagna elettorale. In un certo senso, Lula ha permesso che Bolsonaro arrivasse al potere. È una colpa gravissima».
Come si può fermare la devastazione dell’Amazzonia?
«Attraverso la mobilitazione internazionale Bolsonaro rischia di perdere l’appoggio di una parte della grande industria agroalimentare che ora teme conseguenze sulle esportazioni. I governi europei devono fermare l’accordo di libero scambio con il Brasile e gli altri paesi dell’America latina, quel Mercosur che la Francia ha già detto di non voler più sottoscrivere.
Anche l’Italia deve rinunciare a questa intesa che spinge ad aumentare la superficie coltivabile e quindi la deforestazione. Aggiungo poi che Bolsonaro ha liberalizzato i prodotti più tossici nell’agricoltura, e quindi attraverso il Mercosur i paesi europei rischiano di essere invasi da cibo avvelenato».
C’è qualcosa di visionario nel suo lavoro?
«Quando negli anni Ottanta ho cominciato a lavorare sulla fine della seconda rivoluzione industriale nel progetto
La mano dell’uomo
ho passato anni a osservare la trasformazione del lavoro e dei sistemi produttivi automatizzati accompagnati dallo spostamento dell’industria verso paesi nei quali la manodopera era a basso costo. All’epoca nessuno parlava ancora di globalizzazione, ma ho sentito che era un altro grande tema. In modo naturale ho deciso di occuparmi della riorganizzazione della famiglia umana. È nato il progetto
In cammino
che parla degli spostamenti di popolazioni, dell’immigrazione, è una storia dentro alla quale stiamo ancora, ma che per me rappresenta un ciclo chiuso».
Perché?
«Ho avuto molti riconoscimenti per In cammino, ma per me è stato un lavoro molto pesante. Ne sono uscito provato, in qualche modo anche depresso a causa di tutta la violenza umana che avevo visto. Sono tornato con Lélia nelle mie terre natali, nella regione del Minas Gerais, per ricostruirmi fisicamente e mentalmente. È stato così che sono arrivato all’ecologia. Mi è sembrato evidente allora – eravamo all’inizio degli anni Duemila – che sarebbe stata la grande storia del nuovo secolo. Per otto anni ho girato il mondo verso i luoghi più incontaminati del pianeta e ho lavorato molto in Amazzonia».
Fotografare la natura è molto diverso?
«Fino a
Genesis mi ero occupato di un solo animale, l’Uomo. E sinceramente non sapevo come avrei fatto. Poi ho scoperto che, quale che sia il soggetto, bisogna cominciare con un atto d’amore. Ci devi mettere il cuore. Per fotografare gli umani devi rispettarli, parlarci, capire da dove vengono, che cosa desiderano. Devi farti accettare perché solo così riceverai la foto che cerchi. Il mio primo reportage per Genesis era alle Galapagos. Volevo vedere le tartarughe ma loro sfuggivano al mio obiettivo».
Alla fine ci è riuscito.
«Dopo giorni di blocco totale ho immaginato di essere anche io una tartaruga. Mi sono messo a terra e sono avanzato lentamente a carponi. Le tartarughe mi hanno finalmente accolto nel loro mondo. Un’altra volta in Brasile ho fatto la stessa cosa in una riserva di caimani. Sono diventato un coccodrillo, e giuro che i caimani ridevano e alla fine sembravano quasi mettersi in posa. Per fotografare un albero è uguale. Devi amarlo, rispettare il suo silenzio, farti accogliere nella luce e nello spazio. Mi ricordo che all’inizio il mio agente a Londra mi diceva: “Sebastião, non farlo, è un rischio, sei un fotografo sociale, ti rovinerai”».
Questa funzione sociale è scomparsa?
«Il problema è che siamo animali politici.
Tutto quello che facciamo si inserisce nella società e nel momento storico, quindi è ovvio che c’è una componente sociale anche in Genesis o nel mio nuovo progetto. Oggi mi interessa soprattutto che le mie foto insegnino alle persone ad amare l’Amazzonia, a capire la bellezza di questi paesaggi, la ricchezza della cultura indiana, e il bisogno di proteggerla. La militanza, l’impegno, viene dopo. Non ho nessun messaggio politico».
Crede in Dio?
«No, non sono credente. Per me il grande pensiero spirituale è l’evoluzione del mondo minerale, vegetale, animale. Da quando ho cominciato Genesis mi sento parte di quest’armonia. C’è una perfezione che mi sorprende ogni volta. I cristiani rispettano Cristo, io rispetto Darwin».
Perché ha deciso di impegnarsi concretamente attraverso l’Instituto Terra?
«Con Lélia abbiamo ripreso la fattoria dei miei genitori. Sono figlio di contadini, anche io ho partecipato alla deforestazione, non dell’Amazzonia ma della foresta atlantica del Brasile che è stata distrutta ancora di più ed è quasi scomparsa del tutto. Da piccolo mio padre mi faceva andare a dorso di mulo con i carichi di legname. Allora non c’era la consapevolezza dei danni che stavamo facendo. Con l’Instituto Terra abbiamo creato una riserva naturale immensa, grande quanto il Portogallo. Abbiamo piantato milioni di alberi, oltre trecento specie. Sono tornati gli animali, stiamo recuperando le sorgenti d’acqua. Ci vorranno ancora venti o trent’anni per riportare il paesaggio a come era prima, ma lo faremo, anche se io e Lélia non potremo vedere questo sogno completamente realizzato».
È il sogno che la rende ottimista?
«Non sono molto ottimista se guardo a quanta devastazione ha già fatto l’homo sapiens. Siamo predatori incredibili. L’unica cosa rimasta è l’Amazzonia che alimenta la produzione di ossigeno del pianeta. Bolsonaro è solo una tappa nella continuità di un processo terribile. Credo che l’essere umano non resterà qui ancora per molto.
Siamo già nella fase terminale, non viviamo più sul pianeta. Chi abita a Roma, Parigi o Rio, è già un alieno. Forse resteranno forme di vita sul pianeta, ma non so se ci saremo ancora noi umani. Se ci fosse una catastrofe naturale non saremmo più capaci di sopravvivere, abbiamo disimparato le nozioni più elementari del rapporto con la natura, quello che gli indiani in Amazzonia sanno invece ancora fare. È giusto tentare qualsiasi cosa per salvarci, ma quello che vedo non è di buon augurio».