Sul nome di Conte, dunque, la crisi può trovare una soluzione, dando vita al governo giallo-rosso. Oppure chiudersi senza sbocco, trascinando il Paese verso nuove elezioni anticipate dopo meno di un anno e mezzo. Il braccio di ferro tra Di Maio che preme per il bis del premier dimissionario, e Zingaretti che resiste, in nome dell’indispensabile, per il Pd, “discontinuità” tra la fallita stagione giallo-verde e la nuova che si aprirebbe in caso di accordo tra Pd e 5 stelle, ha conosciuto ieri momenti drammatici. A un certo punto era perfino circolata voce di imminenti dimissioni del leader del Nazareno, che poi ha insistito con il capo politico pentastellato per proseguire il confronto programmatico tra i due partiti.
Ma si intuisce che Zingaretti è stretto da pressioni a tutti i livelli. Dei leader europei, che vedono nella possibile nascita del governo l’occasione per sottrarre l’Italia all’anomalia rappresentata dall’ascesa al potere del primo esecutivo sovranista-populista, restituendola al ruolo tradizionale di Paese fondatore dell’Unione, ed emarginando all’opposizione Salvini, perno della transnazionale opposizione euroscettica. E del Quirinale, che ieri, tramite un vecchio amico del Capo dello Stato, l’ex-leader dei Popolari Castagnetti, ha ricordato un precedente storico indicativo: Berlinguer, che pure avrebbe preferito Moro, nel 1976 accettò Giulio Andreotti, già allora uno dei più usurati inquilini dc di Palazzo Chigi, come presidente del Consiglio del primo governo di solidarietà nazionale, un monocolore sorretto da una larga maggioranza che andava dalla Dc al Pci.
Ergo, non si capisce perché Zingaretti debba impuntarsi su Conte, sapendo peraltro che Di Maio sarebbe pronto a compensare questa scelta lasciando al Pd i ministeri più importanti. Ancora, a spingere a favore del governo, piuttosto del ritorno alle urne, sono ambienti economici e bancari, di quelli che un tempo venivano chiamati “poteri forti” (e da tempo lo sono molto meno).
Inoltre Zingaretti è circondato nel suo partito da una forte opposizione interna, non solo renziana (sebbene il primo a proporre il ribaltone sia stato Renzi), che vorrebbe convincerlo a mollare, in nome della ragionevolezza e, come si suol dire in questi casi, “per il bene del Paese”. Perché allora continua a tener duro? Per la semplice ragione che tutto ciò che gli viene presentato come l’unica soluzione possibile, per evitare un nuovo passaggio elettorale, foriero dell’assai probabile sfondamento di Salvini e del centrodestra a guida salviniana, nonché di un’ennesima sconfitta per il Pd, ai suoi occhi assume connotati diversi. Più che il precedente del Berlinguer di ben 43 anni fa, Zingaretti infatti ha ben presente quello del 2011, quando Bersani e il Pd furono chiamati a sostenere il governo di emergenza di Mario Monti, e andarono incontro alla cosiddetta “non vittoria” del 2013, l’inizio di un avvitamento che, con la sola eccezione della vittoria di Renzi alle Europee del 2014, ha precipitato il partito l’anno scorso verso la peggiore sconfitta della sua storia e nella sua attuale crisi.
Un governo nato da un’ennesima manovra di palazzo in nome del “no” a elezioni. Voluto dai potenti partners europei, convinti che il voto del Movimento 5 stelle a favore della presidente della Commissione Ue Ursula Von der Leyen rappresenti un definitivo ravvedimento dei grillini (e non, com’è più probabile, uno dei tanti azzardi di Di Maio, simmetrico e opposto a quello di Salvini, schieratosi contro). Ecco, non è affatto detto che possa trasformarsi nella grande occasione, che molti consigliano a Zingaretti di non mancare. Tra l’altro, l’offerta pentastellata dei ministeri più importanti, ne farebbe un esecutivo sostanzialmente Pd, con qualche striatura grillina che Grillo e Di Maio potrebbero sfilare da un giorno all’altro, né più né meno come fece Berlusconi con Monti, lasciando sulle spalle dei Democrat tutto il peso della complicata situazione italiana. Infine Zingaretti teme che, a governo appena insediato, Renzi e i suoi si riprenderebbero tutta la libertà di manovra, in vista della ventilata formazione del nuovo partito renziano, che i tempi ravvicinati di eventuali elezioni anticipate non consentirebbero. In altre parole, per quanto discutibile sia, non si può dire che la prudenza di Zingaretti sia del tutto immotivata.