L’umanità nella musica di Mozart

di Maurizio Bettini
“La disumanità non può diventare legge” recitava un cartello sventolato in aula al momento della fiducia sul decreto sicurezza bis. La virtù che definiamo umanità, infatti, viene prima, e va al di là, delle leggi positive: i principi che la ispirano vengono da sfere molto più antiche, e molto più profonde, di quelle in cui prende vita un’occasionale maggioranza parlamentare. Ma che cosa è, poi, ciò che definiamo “umanità”? Un’invenzione dei romani, perché la parola “humanitas”, e soprattutto la fondamentale sfera di significati che essa porta con sé, costituiscono uno dei contributi più significativi che essi hanno dato alla nostra civiltà.
Come primo significato “humanitas” ha quello di essere uomini, ossia soggetti che vivono in società, sono dotati di ragione e linguaggio. Ma eccoci al punto. Con “humanitas” infatti i romani indicano non solo il fatto di essere uomini, ma anche l’adottare un comportamento a carattere equo, mite, civile nei confronti dei propri simili. Si tratta di un passaggio cruciale. In pratica la nozione di uomo viene resa direttamente ‘traducibile’ in quella di equità, mitezza, civiltà, l’uomo può dirsi veramente tale solo quando applica comportamenti ispirati a questi principi; e inversamente mitezza e generosità sono le caratteristiche che fanno essere l’uomo ciò che è.
Badiamo bene, le cose sarebbero anche potute andare altrimenti: ossia, i romani avrebbero potuto identificare la caratteristica umana con forza, durezza, crudeltà, roba da veri maschi guerrieri invece è stato il contrario. Scegliendo di identificare l’umanità con la mitezza e la civiltà, Roma ha fondato la nostra umanità e anche i nostri “diritti umani”: ci ha insegnato che se vogliamo dirci uomini dobbiamo essere generosi, miti e civili. Questo però non basta ancora, perché “humanitas” ha un terzo significato: indica anche “cultura”, l’aver studiato, l’aver letto dei libri. Da qui derivano le “humanities” degli anglosassoni, i nostri studi umanistici e così via. Ma questo che cosa significa? Che per dirsi veramente uomini occorre non solo essere miti e generosi, ma anche avere una cultura. In pratica queste tre nozioni fanno tutt’uno. A Roma si è insomma riusciti a fare dell’istruzione e dell’educazione un requisito per la mitezza, il comportamento civile: e di entrambe queste qualità (la mitezza generosa e la cultura) i requisiti per potersi dire uomini.
Purtroppo però nella nostra società la cultura declina. Lo si vede non solo dai risultati Invalsi nella scuola e dall’analfabetismo funzionale che affligge anche il mondo degli adulti, ma dal livello della nostra tv, dalla meschinità di quanto circola spesso in rete e sui social, dal linguaggio sempre più misero e volgare invalso nei media e nel parlare quotidiano; e soprattutto dal fatto che la cultura, quando c’è, o è derisa o è considerata un fenomeno residuale – roba per vecchi professori che ascoltano Mozart (come ha detto qualcuno), se non l’infido strumento che le élite usano per discriminare il popolo. La cultura insomma declina intorno a noi, ogni giorno di più. Solo che se vacilla uno dei due pilastri che sorreggono la “humanitas”, inevitabilmente vacilla anche l’altro – senza cultura ci si abitua a ritenere normali comportamenti contrari alla mitezza e alla civiltà, quelli che invece dovrebbero essere propri dell’uomo in quanto tale.
Si raccontava che il console Marcello, vedendo bruciare Siracusa dopo che lui stesso l’aveva distrutta, avesse pianto: gran prova di “humanitas”, commentava lo storico che riportava il fatto. Gran prova di ipocrisia, diremmo piuttosto noi. Ma avremmo torto nel disprezzare in blocco quel pianto.
Esso mostrava che Marcello conosceva almeno quale sarebbe dovuto essere il suo comportamento: piangendo, il console salvava almeno i principi. Molto peggio quando non si piange neppure. Anzi, si vogliono far passare per conformi alla giustizia dei comportamenti che sono contrari alle regole dell’umanità.
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