Le vicende che portarono allo scoppio del caso Galileo e alla severa ammonizione del 1616 sono ben note. Già da qualche tempo, sia a Firenze sia a Pisa, le critiche per il suo sostegno al sistema copernicano circolavano in maniera più o meno esplicita. Nel 1612, per esempio, il domenicano fiorentino Niccolò Lorini non nascose la sua opinione, sia pure in conversazioni private, che le tesi sul moto terrestre fossero contrarie al dettato biblico.
L’anno dopo Benedetto Castelli, professore di matematica nell’ateneo pisano e amico di Galileo sin dagli anni padovani, fu convocato a corte per illustrare la questione alla duchessa madre, Cristina di Lorena, che nell’occasione non mancò di evocare contro la teoria eliocentrica il celebre episodio biblico di Giosuè che chiede a Dio di fermare il Sole per poter proseguire nello sterminio degli Amorrei, inteso come chiara attestazione scritturale del suo movimento attorno alla Terra. Da problema scientifico, insomma, i movimenti celesti diventavano problema teologico, e i frati non vedevano l’ora di fare il loro mestiere di cacciatori di eretici ed eresie.
Informato di questi fatti, Galileo volle prevenire i suoi avversari inviando all’amico Castelli questa lunga lettera in cui non si accontentava di difendere una tesi astronomica, ma affrontava coraggiosamente la questione cruciale del rapporto tra la Bibbia e la natura, o meglio del linguaggio dell’una e dell’altra, per spiegare che quando Giosuè chiedeva di fermare il sole non enunciava una teoria scientifica ma invocava un miracolo da parte del suo Dio. «Se ben la Scrittura non può errare – affermava –, potrebbe nondimeno errar alcuno de’ suoi interpreti et espositori in varii modi, tra i quali uno sarebbe gravissimo e frequentissimo: quando volessero fermarsi sempre sul puro significato delle parole, perché cosi vi apparirebbono non solo diverse contradizioni, ma gravi eresie e bestemmie ancora; poiché sarebbe necessario dare a Iddio e piedi e mani e occhi, e non meno affetti corporali e umani, come d’ira, di pentimento, d’odio, e anco talvolta l’obblivione delle cose passate e l’ignoranza delle future». Di conseguenza, per capire le leggi della natura, esse stesse volute da Dio, immutabili ed eterne, non bisogna affidarsi «al nudo senso delle parole», destinate ad «accomodarsi all’incapacità del vulgo», ma servirsi di «sensata esperienza» e «necessarie dimostrazioni», impadronendosi del loro linguaggio matematico. Un discorso limpido e coraggioso, che suonava tuttavia come un’indebita invasione nel campo della teologia, con la pretesa di insegnare il loro mestiere agli arcigni custodi dell’ortodossia.
Fu quello stesso Niccolò Lorini a procurarsi una copia dello scritto galileiano e a trascriverlo in una lettera spedita a Roma al prefetto della congregazione dell’Indice e da questi trasmessa per competenza al collega allora a capo dell’Inquisizione romana. Anche Galileo, tuttavia, per contrastare le accuse formulate dal Lorini volle far conoscere la sua lettera al Castelli ad alcuni amici romani, perché ne difendessero l’ortodossia. Sin qui nulla di nuovo. Il problema è che tra il testo del Lorini e quello di Galileo, quale risulta da numerose copie coeve, esistono alcune differenze, che indussero l’accurato curatore dell’edizione nazionale delle opere dello scienziato pisano, Antonio Favaro, a optare per la seconda versione, attribuendo le varianti alle imprecisioni – magari non del tutto disinteressate – del frate fiorentino. Il che non corrisponde al vero, come risulta dalla straordinaria scoperta (già annunciata qualche tempo fa ma ora concretatasi in un’edizione) del testo originale autografo di Galileo, rimasto sepolto negli archivi della Royal Society di Londra fino al suo ritrovamento da parte di Salvatore Ricciardo nel 2018. Da esso risulta che la trascrizione del Lorini fu fedelissima, mentre la versione pubblicata dal Favaro riproduce un testo che recepisce le correzioni apposte di suo pugno da Galileo sul manoscritto della Royal Society.
Varianti numerose e non sconvolgenti, ma tutte volte ad attenuare le asprezze della prima stesura. Gli «interpreti» della Bibbia che potevano sbagliare diventano così «alcun de’ suoi interpreti»; le sue «molte proposizioni false quanto al nudo senso delle parole» diventano le «molte proposizioni, le quali quanto al nudo senso delle parole, hanno aspetto diverso dal vero»; il non essersi «astenuta la Scrittura di permutare de’ suoi principalissimi dogmi», diventa il non essersi «astenuta la Scrittura di adombrare de’ suoi principalissimi dogmi». Piccolezze, se si vuole, ragionevoli correzioni all’insegna della prudenza e volte a evitare equivoci. Tutto bene. Ma esse attestano l’esistenza di due diversi “originali”, per così dire, entrambi autografi di Galileo e consentono quindi di valutarne le differenze in relazione a due diversi contesti e momenti storici.
In questa prospettiva quelle correzioni gettano luce su un fenomeno generalizzato in quei decenni di occhiuta censura, di severa repressione, di condanne, di roghi, vale a dire sull’insinuante e pervasivo sistema dell’autocensura imposto dalla Controriforma trionfante, di cui è ovviamente difficile valutare le molteplici e capillari conseguenze. Il recente libro di Gigliola Fragnito, Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori (sec. XV-XVII) (pubblicato dal Mulino e recensito sulla Domenica da Tommaso Munari lo scorso 3 marzo) ne ha indagato le enormi conseguenze sul piano letterario, da Torquato Tasso a Gabriello Chiabrera. Questo importante ritrovamento galileiano ne illustra un altro esempio su uno dei testi più celebri della cosiddetta rivoluzione scientifica, ma non certo in grado di convincere il Sant’Ufficio e la sua guida più autorevole, san Roberto Bellarmino, proclamato nel 1931 Dottore della Chiesa, che il sistema copernicano fosse compatibile con il dettato biblico. Galileo fu quindi convocato al suo cospetto e dovette promettere di astenersi in futuro dal sostenere quella tesi e empia e sovversiva. Per questo quando nel 1632 apparve il Dialogo sopra i massimi sistemi fu processato e costretto all’abiura. Per salvargli l’anima e ad maiorem Dei gloriam.
Galileo ritrovato.
La lettera a Castelli
del 21 dicembre 1613
Michele Camerota, Franco
Giudice, Salvatore Ricciardo
Morcelliana, Brescia,
pagg. 80, € 10
Massimo Firpo