Maria Lassnig, pioniera del movimento femminista in pittura, scopriva il suo corpo sulla tela per raccontare il mondo
di Francesco Bonami
Maria Lassnig, Leone d’oro alla carriera alla Biennale di Venezia del 2013, scomparsa l’anno dopo a 94 anni, si potrebbe definire la Lina Wermuller della pittura contemporanea. Per la somiglianza fisica, ma anche e soprattutto per l’energia indipendente che ha sempre espresso nel suo lavoro senza troppe indulgenze al genere fenminile. Lo Stedelijk Museum di Amsterdam gli dedica una grande mostra (fino all’11 Agosto) con 200 opere fra dipinti, disegni e brevi film di animazione. Nata in Carinzia, scorbutica regione montagnosa dell’Austria del sud, aveva studiato all’Accademia di Belle arti di Vienna negli anni in cui il nazismo metteva al bando e distruggeva l’arte delle avanguardie moderne, considerate degenerate. Quando, finita la guerra, la Lassnig scopre l’espressionismo tedesco, Max Beckman, Otto Dix, George Grosz e tutti gli altri, vive uno shock che le apre gli occhi. Il suo sguardo però si concentrerà sempre su sé stessa, sul proprio corpo visto come un paesaggio da esplorare, tanto che nel 1948 descriverà il suo stile “coscienza corporea”: all’inizio il corpo è astratto, poi si trasformerà in un autoritratto al limite della caricatura. Se gli artisti tedeschi sono eroi drammatici e tragici, quelli austriaci sono scoglionati e decadenti, in più contorti psicologicamente essendo cresciuti con Sigmund Freud fra le scatole. Ma hanno anche uno spirito autodenigratorio quando non sfocia nell’autolesionismo che li rende simpatici. Maria Lassnig non fa eccezione, ma la sua pittura fatta di colori leggeri e trasparenti, una Matisse esistenzialista, alleggerisce la sua arte da quella cappa opprimente della cultura viennese moderna e anche di quella contemporanea. Alla fine degli studi si unisce a un piccolo gruppo di artisti che, a ironica conferma della poca autostima, si chiamava “Hundsgruppe”, branco di cani. Maria Lassnig, più che alla realtà che le stava attorno, era interessata a quella dentro sé, un sé sia fisico che emotivo che mentale. Guardare sé stessa voleva dire guardare il mondo, convinta che la nostra realtà sia il miglior obiettivo per mettere a fuoco tutto il resto. Per questo odiava gli artisti che usavano la fotografia. Per lei baravano. Con uno scatto si trovavano la pappa scodellata. Nel 1974 per prendere in giro i colleghi che sostituivano il pennello con macchine fotografiche o cineprese, dipinge un doppio autoritratto nuda, uno con la testa deformata e l’altro con in mano una cinepresa 16mm, il mezzo più usato dagli artisti impegnati degli anni ’70. Nuda si dipingerà sempre.
Eppure la sessualità sarà sottintesa, mai esposta. Il corpo della Lassnig è più quello di una nudista che quello di un’esibizionista. Lo dimostra il fatto che parlando del corpo come soggetto dei suoi quadri lei lo definisce un “raviolo”, fatto di pasta da modellare più che di carne e ossa. Nel 1960 si trasferisce a Parigi dove trova le rimanenze del surrealismo, compreso André Breton, il poeta fondatore del movimento. Nonostante il surrealismo sia praticamente spento, la Lassnig riesce a assorbirne le ultime gocce. Il blu ch e spesso usa come sfondo dei suoi dipinti è un po’ quello dei quadri di Magritte, solo passato in lavatrice molte volte, non più vivo ma sbiadito e trasparente. Nel 1968 da Parigi si traferirà a New York, altra tappa obbligatoria per un’artista di quel tempo. Troverà la Pop art che sta sfumando e un’atmosfera minimalista e concettuale che disprezza la pittura. I pochi critici che si degnano di dare uno sguardo al suo lavoro, lo liquidano come una caricatura derivata dai quadri di Francis Bacon, eppure il suo approccio è completamente differente: non c’è la voracità sessuale che c’è nell’artista irlandese. Lei è una donna e non le vengono concesse attenuanti. Le artiste della sua generazione o sono le fidanzate di qualche artista famoso e potente oppure sono dei cani sciolti. Il bello della Lassnig è che pur sapendo come vanno le cose se ne frega e continua per la sua strada. Nel 1974 fonderà a New York un gruppo femminista, ma il femminismo non sarà mai una missione, più un dato di fatto e uno stato mentale. Dopo dodici anni tornerà a Vienna e qui le offriranno la cattedra di pittura alla prestigiosa Accademia di Arti Applicate. Potrebbe sembrare normale, invece per capire la fatica che le donne hanno fatto e continuano a fare per affermarsi nel mondo dell’arte, va sottolineato che Maria Lassnig nel 1980 è stata la prima donna ad avere una cattedra di pittura in un paese di lingua tedesca.
Nonostante tutto non ha mai mostrato risentimento, ne ha mai abbracciato la cultura del lamento. Ha continuato a dipingere con insistenza, ha accettato premi e onorificenze – che alla fine sono arrivati – con piacere ma senza eccitarsi troppo. Il suo corpo rimarrà al centro del suo sguardo. Nei suoi ultimi quadri, già novantenne, si dipingerà mentre si sta facendo un selfie usando un selfie stick . Si potrebbe dire che l’arte di Maria Lassnig è ipocondriaca: una malata immaginaria la cui malattia è stata l’immaginazione con la quale non ha combattuto, ma giocato in quello che può essere definito un vero “corpo a corpo”.