FULVIO PALOSCIA
Dal 21 settembre, 115 mila visitatori hanno riempito Palazzo Strozzi per The Cleaner, la mostra che fino al 20 gennaio racconta la strepitosa avventura di Marina Abramovic nella performance. 18 mila solo negli ultimi 12 giorni, quelli in cui la trentenne finlandese Tiina Pauliina Lehtimäki ha riperformato The house with the ocean view che, nel 2002, vide la Abramovic trasformare la Sean Gallery di New York in un’astratta abitazione dove visse in silenzio e a digiuno per due settimane. La ripresa fiorentina si è chiusa domenica, nella folla la stessa Abramovic che ha accolto la giovane seguace tra le lacrime, «le emozioni legate a quella creazione sono troppo forti» dice l’artista serba; del resto la mostra voluta e curata da Arturo Galansino — il pubblico fino ad oggi è stato composto al 70 per cento da donne, mentre il 50 per cento è sotto i 30 anni — rappresenta qualcosa di rivoluzionario, sostiene la Abramovic, nella sua storia e in quella della performance: «Da evento vivo e mutevole, The Cleaner ha fatto nascere una comunità di visitatori che tornano più volte per poter assistere a tutte le riperformance, si è creata una vera e propria comunità di supporto, di sostegno. Come accadeva negli anni Settanta e oggi, con la mercificazione dell’arte, non avviene più». Nel 1985, in una sua residenza fiorentina, «12 persone assistettero alle mie performance e fu considerato un successone per i tempi, in Italia. Ricordo che utilizzammo le lenzuola dell’albergo dove alloggiavamo.
Devo ancora restituirle». Oggi, invece, la città ha accolto la Abramovic con un caldissimo abbraccio, ancora più forte in occasione di The house with an ocean view: «Cosa piace di un’idea così semplice, che consiste nell’esserci in tempo reale, e nel compiere gesti quotidiani? Credo che la risposta stia nel desiderio di dare una pausa ad una vita veloce, frettolosa, prendendo parte ad un evento che è la vita stessa: questo spinge all’osservazione interiore e alla circolazione di una nuova energia che io chiamo supersé.
Certo, càpita di fare cose strane: a New York, mentre riempivo un secchio con cui avrei dovuto liberare il bagno, mi sono immaginata l’acqua che tracimava e allagava la galleria.
Trasognata, mi sono rivolta verso il pubblico e ho notato il gallerista con un cartello in cui mi invitava a fermare l’acqua. Ho iniziato a ridere, mi avranno presa per pazza. Però, intanto, la galleria l’ho allagata». Le 288 ore trascorse da Tiina Pauliina Lehtimäki in Palazzo Strozzi sono parse alla giovane performer «un unico lungo giorno: durante la notte elaboravo le emozioni condivise con i visitatori per poi resettarmi e ripartire. Non mi sono mai sentita sola, neanche quando il museo era chiuso al pubblico, perché l’energia della gente circolava sempre». Obiettivo che The house cercava e cerca, «l’oceano a cui allude il titolo è la creazione in loco di una coscienza collettiva — aggiunge Abramovic — io, dopo quella esperienza, ho una maggiore consapevolezza del tempo e della natura effimera della nostra vita». Sarebbe possibile ripensare A house with an ocean view per un performer uomo? «Riformulare le mie opere partendo dal gender è un esperimento che abbiamo tentato anche qui a Firenze, ma non in questo caso. No so cosa porterebbe di nuovo un uomo, so solo che negli anni Settanta, quando creai questa performance, le donne che facevano arte non erano visibili: Marisa Merz ha dovuto aspettare la morte del marito, Mario, per imporsi, e dovremmo chiederci perché, anche se sappiamo benissimo che si tratta di una domanda retorica. Io una risposta ce l’ho, e sta nel modo sbagliato in cui le madri italiane educano i loro figli». A chi attribuisce significati politici a questa come ad altre sue creazioni, la Abramovic chiede cautela: «I miei lavori sono una stratificazione di significati diversi, quello politico non è prevaricante: la politica cambia velocemente come i titoli dei giornali; preferisco pensare che più si va a fondo dentro se stessi, più si diventa universali. E l’arte deve essere universale».
Eppure, dalla nutrita schiera di fronti e linguaggi con cui l’artista si è confrontata, manca il digitale, che le offrirebbe nuove forme di interazione: «nella tecnologia non c’è niente di sbagliato, è errata la nostra dipendenza. Esiste un’arte valida e una che non lo è, alla tecnologia è connessa molta cattiva arte: bisognerebbe avere una gran bella idea e io ancora non l’ho avuta. Il successo dei miei lavori è dovuto al fatto che credo in quello che faccio, che faccio ciò che amo, e continuerò così fino alla morte. Per questo anche i giovani mi seguono». E racconta, scoppiando nella sua risata profonda: «Una volta a una mia mostra un ragazzino ha indossato le cuffie che isolano da tutto. Non funzionano, mi disse, perché non si sente proprio niente. Quando gli spiegai che l’obiettivo era proprio quello, lui è impazzito dall’entusiasmo, ed è tornato più volte portando con sé anche gli amici. Tutti eccitatissimi, perché avevano scoperto il silenzio è importante tanto quanto il suono. Anzi, di più».