Oltre ai faldoni, piccoli oggetti. Come una penna donata nel 1947 dal «senatore» alla collaboratrice: «La prima da me adoperata»
Inutili. Irrilevanti. «Questi fogli non ci servono, disfatene pure». E Dora se ne andava con la pila di carte. Benedetto Croce conservava quasi tutto: le sue opere ristampate centinaia di volte, i ritagli di giornale incollati e archiviati, gli sterminati scambi di lettere. Tutto in bell’ordine, tranne una cosa: le bozze di ciò a cui aveva lavorato. «Niente appunti in giro, niente manoscritti. Solo il prodotto finale conta». Lo ripeteva ai collaboratori e l’aveva anche teorizzato nel 1947, bacchettando i filologi che indagavano gli autori spulciandone le versioni non definitive. Scartafacci, le chiamava. Di quelle carte randagie, quando il pensiero in divenire era il suo, a saggi pubblicati non voleva più sapere nulla.
Eppure, in silenzio, qualcuno non condivideva e nelle pagine coperte dalla grafia sottile, quasi indecifrabile, grattate dalla stilografica e punteggiate da correzioni vedeva una testimonianza comunque preziosa del fluire dei tormenti e del vorticare delle idee. «Davvero, senatore? Non le vuole tenere?». Questo qualcuno era Dora Marra, l’ultima segretaria di Croce. La fedelissima Dora che sugli scartafacci aveva deciso di fare di testa propria. E, timidamente ma caparbiamente, per sette anni aveva radunato bozze, note e brutte copie, salvandole giorno dopo giorno dalla brace del camino o dal cesto dei rifiuti. Tutto senza dire nulla, fino alla scomparsa del filosofo nel 1952 e, poi, per il resto della vita. Mai un cenno sull’archivio ai familiari, o all’amica di sempre Lidia, terzogenita di Croce.
Dora è morta nel 2012 ed è stata Barbara Beth, sua figlia, a trovare le carte: «Dovevo riordinare le cose di mamma nella nostra casa di Amburgo, in Germania. Ho aperto l’armadio dello studio, dai faldoni stipati sono saltati fuori i documenti. La grafia era inconfondibile: l’avevo già vista su altre lettere che custodiva con cura. Erano manoscritti del senatore, come lei lo chiamava. Molti portano una dedica: a Dora. È il probabile indizio di come tra loro, sull’eliminazione delle pagine e degli appunti, si fosse stabilito un gioco delle parti. Mia madre li ha conservati in silenzio, sicuramente per pudore e rispetto verso il senatore e la sua famiglia, a cui era legatissima».
Barbara ha ancora i fogli davanti a sé, quando telefona in Italia. Chiama Maurizio Tarantino, studioso crociano e a lungo direttore della biblioteca dell’Istituto italiano per gli studi storici fondato a Napoli proprio dal filosofo. Sono stati sposati, insieme decidono di mantenere il segreto di Dora. Però si mettono a censire il materiale: il lavoro dura sei anni. E ci porta fino a oggi. Quando, di comune accordo, hanno scelto di rivelare la scoperta. «La prosa di Benedetto Croce — spiegano — è tra le più affascinanti del Novecento, la sua opera è un classico della filosofia, della letteratura, della storiografia. È trascorso molto tempo da quando le pagine sono state raccolte e non è più opportuno tenere nascosto ciò che potrebbe aiutare a ricostruire il profilo intellettuale di questo grande pensatore».
Dora Marra non era una semplice segretaria: il senatore le aveva affidato la biblioteca dell’Istituto e anche la propria. Colta, amante dei libri, ancora ventenne aveva maturato una mossa rispettosamente sovversiva e messo insieme una raccolta privatissima e preziosa. Che forse non avrebbe dovuto esistere, ma — come racconta «la Lettura» in anteprima — c’è. Sono almeno 300 documenti, per oltre duemila fogli tra manoscritti e dattiloscritti con modifiche autografe, bozze di stampa con correzioni e lettere, tutti da analizzare perché rara testimonianza del lavoro di Croce nel momento più tormentato: gli anni dal 1945 al 1952. Fase in cui, sconvolto dalla guerra, rimette in discussione il proprio pensiero.
Una custode silenziosaQuesta storia comincia negli anni Trenta, tra i banchi del liceo classico Vittorio Emanuele di Napoli. In quarta ginnasio si incontrano Dora Marra, nata in una famiglia medio-borghese, e Lidia Croce, figlia del grande umanista. Diventano amiche. La cultura permea il loro mondo di ragazzine. Tanto che Lidia, morta nel 2015, amava ricordare: «Dora già allora aveva interessi filosofici, ne discuteva con i professori». La scuola è a due passi da Palazzo Filomarino, dove i Croce vivono e dove nel 1946 sarebbe nato l’Istituto italiano per gli studi storici. Le amiche si frequentano, tra una chiacchiera e l’altra Dora non resiste. C’è quella biblioteca meravigliosa. «Timidamente mi ci affacciavo — ha raccontato —. Potevo prendere in prestito un libro o l’altro. I libri erano la mia passione». Tanto che è di nuovo lei ad aiutare il senatore e le figlie a riordinare i volumi inviati da Sorrento, dove erano stati messi al sicuro durante la guerra. Era il 1945. Dora aveva 24 anni. Croce 79. Da tempo ne aveva capito la preparazione e nei suoi Taccuinidi lavoro la cita spesso: è lei che commissiona testi, ringrazia per quelli ricevuti in regalo, pressa gli editori per completare le annate di riviste, segue i ricercatori, lo accompagna tra bancarelle e botteghe piccole o grandi degli antiquari napoletani a caccia di titoli. Scorribande intellettuali che la collaboratrice annoterà nel saggio Croce bibliofilo (ripubblicato postumo nel 2014), mentre nelle Conversazioni con Benedetto Croce su alcuni libri della sua biblioteca (1952) sarà lui stesso, ancora in vita, a rivederle gli appunti di lavoro, molto tempo dopo donati da Barbara allo Stato. «L’amore di Dora per la biblioteca di mio padre — ripeteva Lidia — era commovente».
Eredità in brutta copiaPoi c’era il lavoro sulle bozze. Il senatore era solito stendere una prima versione a mano, che poi correggeva di suo pugno a margine; seguiva un dattiloscritto, modificato e modificato fino ad andare in stampa. La grafia era minuta, indecifrabile ai più: la leggevano i familiari, il proto più fidato in tipografia, i segretari. Come Dora, che aveva anche il compito di dattiloscrivere. Nel 1952 Croce muore, ma la giovane collaboratrice continua a operare a Palazzo Filomarino. Alcuni anni dopo, le nozze con Kurt Beth, biologo marino di origini tedesche. E, nel 1979, il trasloco in Germania.
Tra le carte ritrovate in casa Beth ad Amburgo c’è il manoscritto originale de La fine della civiltà. In calce, anno 1946. Quando la filosofia del pensatore «olimpico» e pacificato, ormai ottantenne, entra in crisi per il genocidio, per la «forza cruda e verde» che aveva cancellato il suo mondo di liberale europeo. Il saggio è nei Quaderni della critica, ma i fogli recuperati da Dora ne fotografano la gestazione: gli «scrittori tedeschi» che preconizzano la fine diventano, tra frecce e cancellature, «apocalittici scrittori tedeschi fabbricanti di paradossi» dalle «elucubrazioni in verità poco persuasive». I giornalisti che discutono delle tragedie prima lo fanno «con indifferenza», poi «dilettantescamente». «Il testo tormentato da revisioni — riflette Maurizio Tarantino — è prova plastica della confessione dell’illusione che “la civiltà umana sia la forma a cui tende e in cui si esalta l’universo”, e dello “sforzo penoso” di riconoscere che essa è “solo il fiore che nasce sulle dure rocce e che un nembo avverso strappa e fa morire”».
Un magma che scorre tra le pagine. Tarantino, dal 1990 e per 16 anni responsabile della biblioteca dell’Istituto italiano per gli studi storici (dunque uno dei successori di Dora Marra), prosegue: «Malgrado ciò che Croce diceva sugli scartafacci, poter oggi ricostruire attraverso scritti di primo getto il percorso letterario e filosofico di un pensatore della sua levatura è un’opportunità eccezionale. Alla collocazione dell’archivio non abbiamo ancora pensato, ma certo sarà a disposizione degli studiosi». Perché il materiale è vasto, potenzialmente sorprendente. «Il lavoro filologico dovrà essere accuratissimo. Dalle bozze superstiti del periodo precedente alla guerra si vede che, generalmente, l’autore è più viscerale nella prima stesura, poi smorza i toni. Qui sta avvenendo il contrario? E, se sì, che cosa significa? Che era anziano e ormai non si curava più di attenuare i termini? Che in epoca fascista c’è stata una sorta di autocensura? Sono interrogativi, non c’è per ora risposta. L’appello alla comunità scientifica è adesso fare tesoro di questo patrimonio». Perciò è stato deciso che un primo testo — proprio le brutte copie de La fine della civiltà — venga esposto in pubblico: da ottobre farà parte del contrappunto letterario della mostra?War is over al Museo d’arte di Ravenna, di cui oggi Tarantino è direttore (lui è anche il curatore, con la storica dell’arte e dirigente del Mibact Angela Tecce).
I regali e l’armadioAmburgo, di nuovo. Dai faldoni stipati nell’armadio Barbara estrae bozze e pagine di lavoro, ma non solo. Ci sono piccoli oggetti regalati da Croce alla sua fidata collaboratrice. Uno è la stilografica, accompagnata da un biglietto: «Cara Dora, ti do questa vecchia penna stilografica, la prima da me posseduta e adoperata, donatami da Giovanni Laterza con la quale scrissi tutte le mie opere dal 1910 al 1920, finché essa si stancò ed io la misi a riposo ed è rimasta un pezzo tra le “sacre memorie” le quali finiscono male, ossia con l’essere buttate via. Per risparmiarle questa sorte, la dono a te, che sei capace di conservarla». La dedica è del 19 luglio 1947. Ma, idealmente, il messaggio potrebbe portare la data di oggi.
Domenica 5 Agosto 2018, La Lettura: https://www.corriere.it/la-lettura/