Dettagli d’artista Lo dipinse così il senese Rutilio Manetti davanti a Sant’Antonio E quel tentatore intellettuale colpì Sciascia che lo introdusse nel romanzo «Todo Modo».

Il diavolo con gli occhiali

 

«Un santo scuro e barbuto, un librone aperto davanti; e un diavolo dall’espressione tra untuosa e beffarda, le corna rubescenti, come di carne scorticata. Ma quel che più colpiva, del diavolo, era il fatto che avesse gli occhiali: a pin ce-nez , dalla montatura nera». La voce narrante di To do Modo , terribile romanzo-profezia di Leonardo Sciascia uscito nel 1974, nella prefigurazione di fatti terribili della storia della Repubblica, ambienta la copia di un’opera peculiare nel sancta sanctorum dell’eremo di Zafer, immaginaria figura di musulmano convertito alla vera fede. Così il tortuoso monsignor Gaetano, che ha esattamente gli stessi occhiali del demonio, decodifica la complessa iconografia del dipinto: «Il santo non ha più una buona vista, il diavolo gli porta in dono le lenti. Ma queste lenti hanno ovviamente una diabolica qualità: se il santo le accetterà, attraverso di esse leggerà il Corano, sempre, invece che il Vangelo, o Sant’Anselmo o Sant’Agostino».

Qui si tiene un ritiro di potenti democristiani, ognuno dei quali è presidente o direttore di qualche istituzione statale, prima che si scateni un massacro. L’opera che si può vedere nella chiesa di Sant’Agostino a Siena e campeggiava vividamente sulla copertina della prima edizione Einaudi del libro di Sciascia, è il Sant’Antonio tentato dal diavolo del senese Rutilio Manetti (1571-1639), originariamente collocato sull’altare di San Francesco nella chiesa di Santa Maria dei Minori Osservanti di Grosseto. Sullo sfondo è un frammento di cielo, chiaro, mentre i due personaggi sono in primo piano, in una gamma di tinte sobrie, tra il velluto color prugna della veste del santo, il terreno bruno, e il rosso del mantello del diavolo. I Medici amavano molto questo pittore, folgorato dalla lezione di Caravaggio, di cui l’itinerario biografico è noto solo a tratti.

Il principe Matias, che in gioventù era stato governatore di Siena, aveva nelle sue stanze un magnifico Dante e Virgilio , soggetto raro, di cui forse era stato diretto committente. Il Sant’Antonio venne richiesto a gran voce dal principe Ferdinando, anche se poi suo padre, il granduca Cosimo III restituì l’opera alla sua chiesa d’origine. Nel frattempo molti indicavano l’autore dell’opera in Jusepe de Ribera, lo Spagnoletto, continuatore illustre della lezione di Caravaggio, finché nel 1852 l’ultima edizione della Guida di Siena di Ettore Romagnoli, indicava per la prima volta l’autore. Gli studi non hanno trovato molti documenti sul nesso tra Manetti e la lezione caravaggesca, ma senz’altro nella sua opera c’è una cesura drastica, quando egli si avvicinò, reinterpretandolo, al linguaggio del maestro lombardo, di cui forse aveva visto le opere a Roma. Nel 1978 si tenne la prima mostra importante su questo artista a Siena, nelle sale del Palazzo Pubblico, a cura di Alessandro Bagnoli e Piero Torriti.

L’esposizione era stata fortemente patrocinata da Cesare Brandi, che aveva ribadito dagli anni Trenta la centralità di questo artista. Aveva infatti presentato per la prima volta all’autorità municipale il progetto della mostra nel 1932, dopo che l’anno prima aveva pubblicato la prima monografia sul pittore (in una edizione di trecento copie) presso le Arti Grafiche Lazzeri di Siena, con lo scopo di «dare al pittore un posto tra gli eroi ufficiali del Seicento italiano»).

Nel testo di introduzione al bel catalogo della mostra, edito dal CentroDi, lo scrittore puntualizzava come la scarsa attenzione verso Manetti fosse stata dovuta in primo luogo alla visione storica un tempo condivisa della città: «Quasi che la storia artistica di Siena si arrestasse alla metà del Cinquecento, con la sua fatale caduta nell’orbita dei Medici». Nel momento in cui «il caravaggismo è assurto ai massimi fastigi in tutto il mondo», Brandi puntualizzava gli episodi della pittura di Manetti più vicini alla pittura di Caravaggio, la morte del Beato Patrizi a Monticiano «che viene dalla Morte della Madonna», e la bocca spalancata del soldato che fugge nella Resurrezione di San Niccolò in Sasso, che non può non derivare da San Luigi de Francesi e dalla Medusa». Il diavolo tentatore intellettuale, snob e cinico, dipinto dal pittore senese ha un ruolo da protagonista anche nel magnifico, durissimo film che Elio Petri trasse nel 1976 dal romanzo di Sciascia, pellicola sequestrata dopo un mese dall’uscita nelle sale, non distribuita negli Usa, e poi fatta sparire per anni dopo il sequestro Moro, fino al recente restauro a cura della Cineteca di Bologna e del Museo del Cinema di Torino nel 2014. Le battute sul quadro di Manetti, di cui una copia spicca nell’ambito di una sinistra cripta, disseminata di cadaveri di santi eremiti, toccano al presidente M., magistralmente interpretato da Gian Maria Volonté, il quale afferma di fronte a un attonito commissario, la sua «amara ipotesi, ma credibile ipotesi», per cui l’assassino uccide i boiardi di stato, componendo le varie sigle dei loro enti, nella frase risoluta di Ignazio di Loyola: «Todo modo para buscar la voluntad divina», ossia ogni modo è giusto per cercare la volontà divina.

 

Fonte: Corriere Fiorentino, https://corrierefiorentino.corriere.it/