“Noi profughi” è il titolo di un saggio, scritto in inglese nel gennaio del 1943 da Hannah Arendt, una delle più acute analiste della condizione umana nel XX secolo. Ancora mi rammarico dell’errore di non averla inserita per esteso nel manuale di pensiero ebraico che pubblicai quindici anni fa (errore di ignoranza, anzitutto, e dovuto a un certo pregiudizio nato dalla sottile controversia che la filosofia ebbe con Scholem… ma errore sempre resta). I profughi di cui parla quel saggio sono gli ebrei in fuga dall’Europa nazificata e immigrati negli States: fuggivano da una persecuzione legalizzata dal ‘diritto’ di uno stato totalitario, ma anche dal rischio della miseria, come altri ebrei, soprattutto est-europei, avevano fatto dal 1881 sino alla fine del primo conflitto mondiale; come nella seconda metà del XIX secolo avevano fatto molti neo-italiani piemontesi, veneti, lombardi e poi abruzzesi, campani, siciliani ecc. In quel saggio Arendt spiega la condizione di pariah di chi è “senza stato, senza diritti e senza patria”. Fino agli anni Trenta molti di quegli ebrei-profughi avevano cittadinanza, diritti e una patria cioè: una casa, una lingua e una cultura di appartenenza. Poi nel giro di pochi anni tutto ciò fu loro negato; da tedeschi o francesi o italiani si ritrovarono ad essere solo e semplicemente ebrei… Solo dal 1948 il sionismo avrebbe ridato loro la chance di una nuova patria, uno stato e dei diritti ebraici. Ma i profughi di cui parla Arendt non erano, allora e per lo più, sionisti né volevano essere chiamati profughi. Si volevano sentire e definire ‘immigrati’, neo-arrivati in una terra dove tutti erano immigrati, solo un po’ di tempo prima. Bisogna rileggere questo saggio per capire e valutare moralmente il drammatico fenomeno dei flussi migratori, che da trent’anni – non da ieri mattina – coinvolge l’Europa e rischia di farla implodere per mancanza di memoria e di ethos condiviso.
In un articolo dedicato alla filosofa ebrea-tedesca-statunitense, Richard Bernstein – della New School for Social Research di New York (che fu a lungo la casa intellettuale della Arendt e di altri intellettuali ebrei-emigrati, ad esempio Hans Jonas) – ci ricorda come la studiosa, nei suoi libri sul totalitarismo, avesse ben descritto il fenomeno dell’uso politico della frustrazione sociale, della bugia sistematica e della sostituzione dei dati reali con dati alternativi. Riducendo i fatti a opinioni, chi ha potere (politico e mediatico) riesce a trasformare le opinioni in fatti. Il guaio, sostiene Arendt, è che in tal modo viene distrutta l’abilità – già scarsa in chi ha pochi strumenti cognitivi – di distinguere il vero dal falso, il giusto dal torto, l’onesto dall’immorale. Niente è più delicato del rapporto tra verità e potere negli equilibri di una società. E nessun problema sembra più drammatico oggi nelle società occidentali. Ma è una lezione che apprendiamo proprio dai primi decenni del XX secolo, quando nasce la ‘macchina della propaganda’. Molti sono affascinati dalle formule semplici che spiegano la loro ansia e i loro disagi con coerenza logica, non importa se di una logica irreale e infondata, cioè manipolata. Il bisogno di una qualche redenzione sociale (o di quietare la paura di perdere qualcosa) spinge a “credere a qualsiasi fiction o retorica pubblica che prometta – dice Bernstein – di risolvere i problemi, non importa quanto contraddette dai fatti o irragionevoli tali fiction e retorica siano”.
E tuttavia il messaggio arendtiano non è sconsolatamente pessimista, come non è acriticamente ottimista. Piuttosto veicola un’allerta positiva: dobbiamo e possiamo – dobbiamo perché possiamo – assumerci la responsabilità della nostra vita politica; possiamo e dobbiamo credere nella dignità della politica anche dinanzi allo scempio della propaganda e delle narrative che sfruttano le nostre paure. “Arendt ci ha messi in guardia contro i rischi di lasciarci sedurre da nichilismo, cinismo o indifferenza, consapevoli dei tentativi da parte di chi sta al potere di distruggere la distinzione stessa tra verità e falsità”. Profughi e immigrati non sono i nuovi barbari e l’Europa potrebbe – se avesse più vision e forza morale – trasformare quest’emergenza umanitaria e sociale in un’opportunità storica. Altre volte è successo: quando gli arabi musulmani furono cacciati dalla penisola iberica lasciarono in eredità molti semi che fecondarono la stantia cultura europea, e persino il nostro Rinascimento; ovunque i profughi-ebrei vennero accolti (a Livorno, Firenze e Ferrara nel XVI secolo; a New York e Los Angeles nel XX) diedero prova di creatività e di innovazione, come fecero nel loro nuovo Stato. Hannah Arendt chiude il saggio menzionato in apertura con queste parole: “Il rispetto reciproco dei popoli europei è andato in frantumi quando, e perché, essi permisero che i membri più deboli fossero esclusi e perseguitati”. E, aggiungo io, quando si dimenticarono di Devarim/Dt 25, 19-22, dove è detto: “Quando vendemmierai la tua vigna, non tornerai indietro a racimolare: sarà per lo straniero, l’orfano e la vedova. Ti ricorderai che sei stato schiavo in terra di Egitto…” (Parashat Ki titzè).