Sarà interessante tentare di capire quale sia il retroterra culturale di questa visione e probabilmente lo capiremo strada facendo. Ci sono sicuramente suggestioni della sinistra novecentesca più chiusa e contraria al mercato, ci troveremo anche accenti ed echi della decrescita felice alla Latouche e tanto altro. Quello che emerge per ora è un mix che non può che preoccupare. Il ministro non conosce l’economia reale, i suoi movimenti, le sue contraddizioni. Non vede il mercato come un campo di gioco – tutto sommato il migliore che si conosca – nel quale i comportamenti dei vari giocatori si muovono in parte con una logica di cooperazione, in parte in base a principi di sana concorrenza e nel quale comunque hanno piena legittimità i conflitti.
La democrazia economica sta dentro questa dialettica e invece per Di Maio la diade è solo colpa-punizione. La colpa è sempre a carico del rischio di impresa e della sua sete di profitto, la punizione è l’alfa e l’omega dell’azione della politica che non ha la responsabilità di darsi una visione e di interagire con i soggetti dell’economia reale ma più prosaicamente deve solo «vendicare» i lavoratori degli abusi commessi dal mercato. Questa interpretazione l’abbiamo intravista per la prima volta nella conduzione del tavolo dei rider, l’abbiamo inquadrata con maggiore nettezza nel caso delle norme anti-delocalizzazioni e più in generale in tutti gli interventi per il Decreto Dignità. E poi ancora nella durissima polemica contro le banche prima e versus la Confindustria dopo.Non è un caso che Di Maio per inscenare i suoi assolo scelga sempre le situazioni estreme: un piccolo imprenditore perseguitato dall’usura o un forgotten man da contrapporre all’establishment. Il guaio però è che l’economia reale italiana dell’anno di grazia 2018 non ha bisogno di un piccolo Brecht, ma di ministri competenti. Le vendette non aumentano il Pil.