Maurizio Ferrera
Nel noto quadro di Pellizza da Volpedo (di cui il 28 luglio ricorre il 150º della nascita) il Quarto Stato è rappresentato da un gruppo di contadini della pianura alessandrina, uno degli epicentri delle lotte agrarie dei primi del Novecento. Ma, come la storia del dipinto rivela, quella «fiumana» (titolo di un quadro precedente) era composta da «ambasciatori della fame» (titolo di un primo bozzetto), che parlavano per quella larga parte di società che «soffriva assai». La figura femminile in primo piano, con un bimbo in braccio, allarga l’universo sociale del quadro all’intera schiera degli oppressi, a una «umanità assetata di giustizia» che Pellizza descrisse in una poesia coeva. Insomma, il «Quarto Stato» era una classe «per sé», portatrice di interessi universali di emancipazione.
Quella classe è stata la protagonista principale del secolo scorso. Nel suo nome si sono fatte rivoluzioni in varie parti del mondo. In Europa occidentale, i suoi rappresentanti hanno riempito i parlamenti e spesso tenuto le redini dei governi, addomesticando il capitalismo e creando il welfare state. Una volta conseguito il potere, il proletariato novecentesco si è tuttavia fermato. Da (potenzialmente) universali, i suoi interessi si sono ripiegati verso il particolare, dando priorità a obiettivi prosaici come l’indicizzazione dei salari, l’età di pensionamento, l’ammontare della liquidazione… La conquista (oggi soprattutto la difesa) di garanzie per i propri membri ha indebolito la capacità della classe lavoratrice «a tempo indeterminato» di mantenere un orizzonte largo, di svolgere il tradizionale e nobile ruolo di ambasciatrice dei più vulnerabili.
Anche se oggi sono meno visibili di un secolo fa e sicuramente molto meno organizzate, le fiumane di svantaggiati esistono ancora. Gli oppressi del mondo entrano tutte le sere nelle nostre case attraverso la tv. Ma da loro ci separa un fossato che spiega e riproduce la loro emarginazione. Sono tagliati fuori da qualsiasi circuito economicamente e politicamente rilevante perché non hanno nulla da scambiare. Il «Quarto Stato» aveva braccia che servivano, poteva fare scioperi che spaventavano. Grazie al suffragio universale, i suoi uomini e (dopo, non ancora pienamente) le sue donne sono riusciti a entrare nel sistema e a sfruttarlo a proprio vantaggio. I diseredati del mondo d’oggi invece sono esclusi, la globalizzazione passa sopra le loro teste senza considerarli.
Ma come stanno le cose al di qua del fossato, nel Primo Mondo? Cosa c’è oggi sotto il «Quarto Stato»? Già negli anni Ottanta gli studiosi cominciarono ad osservare che la distribuzione del reddito e più in generale delle opportunità stava assumendo una nuova forma: dalla tradizionale piramide — tanti poveri alla base, pochi ricchi al vertice — a una specie di diamante — una grande «massa media» in mezzo, i ricchi nell’angolo superiore e i poveri nell’angolo inferiore. Ralf Dahrendorf coniò la metafora della «società dei due terzi». Un 65% di persone economicamente e socialmente sicure, il resto composto da un caleidoscopio di figure senza agganci fissi al mercato del lavoro e dunque strutturalmente vulnerabili, quando non addirittura intrappolate nella disoccupazione e nella povertà.
A questo variegato caleidoscopio il dibattito più recente ha assegnato un nome: il precariato. La struttura di classe delle società avanzate si è riarticolata in cinque segmenti. Un ceto ristretto di plutocrati al vertice, ormai integrato a livello internazionale grazie alla globalizzazione del capitale finanziario. A seguire, un ceto borghese, benestante ma tuttora ancorato a patrimoni e attività prevalentemente nazionali. Poi un ceto abbastanza ampio di «salariati»: categorie sociali che possono contare su flussi di reddito fisso da lavoro dipendente, autonomo o da pensione. Il tradizionale «Quarto Stato» si è in parte disciolto all’interno del salariato; le sue fasce più basse sono rimaste classe operaia (proletariato), la quale è però bene inserita dentro la cittadella delle garanzie. Al fondo, sta invece il precariato.
Che cosa contraddistingue questo gruppo sociale, che potremmo chiamare il contemporaneo «Quinto Stato»? Essenzialmente tre elementi. Il primo e più evidente è l’instabilità lavorativa, l’assenza di un posto e di un reddito ragionevolmente sicuri. Chi fa parte del precariato esegue lavori a termine, occasionali, a tempo parziale, a domanda, in somministrazione, nelle piattaforme della gig economy. Ciò impedisce il formarsi di identità occupazionali, di una qualche «narrazione» per ordinare la vita. I precari sono anche costretti a sobbarcarsi molto lavoro non retribuito per restare occupabili: guardarsi in giro, passare ore su internet, compilare domande, aggiornare il curriculum, fare corsi di aggiornamento e così via. Il secondo elemento è l’assenza — o il bassissimo grado — di protezione sociale. Niente ferie o giorni di malattie pagate, pochi sussidi per il periodo di non occupazione, buchi contributivi e così via. In molti Paesi esistono redditi minimi garantiti. Ma non sempre la condizionalità a essi collegata ha ricadute positive, per alcuni non conviene proprio. Infine il terzo elemento — che riguarda soprattutto gli immigrati, sempre più anche quelli provenienti da Paesi dell’Ue — è il tenue legame con la cittadinanza, il diritto ad avere diritti, soprattutto politici e sociali. Questi tre elementi tendono a produrre frustrazione e stress psicologico, ansia nei confronti di eventi imprevisti, impossibilità di programmare, sensazione di isolamento ed esclusione.
Certo, non per tutti i precari è così. Il precariato è per lo più giovane (anche se sta invecchiando: c’è chi a quarant’anni non ne è mai uscito). Dunque le effettive condizioni di vita dipendono molto dal background familiare. I genitori in genere fanno parte del salariato, spesso anche della borghesia benestante. In questi casi, la precarietà può anche essere vissuta come flessibilità, come fonte di inedite opportunità per bilanciare i tempi di vita e di lavoro, per sperimentare diverse ambizioni. Per la maggioranza, tuttavia, il tratto prevalente rimane la vulnerabilità.
Nel volume del 2011 Precari (il Mulino), il sociologo Guy Standing sostenne (da neomarxista) che il precariato era la nuova «classe pericolosa», in procinto di trasformarsi in una classe per sé, un «Quinto Stato» pronto a mobilitarsi contro apertura, globalizzazione, neoliberismo, concorrenza e mercato. Qualche fermento in effetti c’era già stato (movimento no global, mobilitazioni anti Bolkestein in Europa) e s’intravedevano i sintomi di un possibile risveglio del precariato in fenomeni come Occupy, gli Indignados, Syriza. Negli anni successivi tale risveglio non ha tuttavia prodotto solo mobilitazioni «emancipative» (per dirla con Standing), ma anche «regressive», di stampo xenofobo o neofascista.
Rispetto al Quarto Stato novecentesco, il profilo politico del «Quinto Stato» di oggi presenta incisive e decisive differenze. Il proletariato condivideva il lavoro di fabbrica, viveva negli stessi quartieri, frequentava gli stessi ritrovi, le sezioni dei partiti e dei sindacati. Era socialmente e culturalmente più omogeneo, più facile da organizzare e mobilitare. Il precariato è eterogeneo, disperso, molto connesso, ma attraverso i canali «freddi» di internet. Al suo interno si creano increspature, a volte onde effimere di mobilitazione, ma non si formano mai «cavalloni» in grado di fare rumore, di creare disordine. Difficile immaginare per il precariato un’icona che abbia lo stesso valore simbolico del quadro di Pellizza, la stessa capacità evocativa unificante. La classe operaia novecentesca aveva inoltre un programma politico: il socialismo (prima senza aggettivi, poi democratico). Il precariato del XXI secolo è invece privo di un’agenda propria e coerente. Alcune interessanti idee a riguardo circolano tuttavia nel dibattito intellettuale. Da un lato, vi è la riflessione su come fornire sicurezze e protezioni calibrate sulle nuove modalità di lavoro. È la strategia della flexicurity — quella seria — magari sorretta da un reddito di base universale e incondizionato, come propone Philippe Van Parijs. Dall’altro lato, si riflette su come fare di necessità virtù, ossia approfittare della globalizzazione, della flessibilizzazione e delle nuove tecnologie per progettare un nuovo modello di società.
La sfida sociale del Novecento è stata quella di assicurare lavoro e reddito. Quella del nostro secolo sarà la redistribuzione equa del surplus generato dall’integrazione economica e dalle nuove tecnologie, se questi processi saranno ben gestiti. Nel nuovo contesto, l’obiettivo sarà garantire a tutti non solo una base di sicurezza economica, ma anche una quantità «decorosa» della risorsa che sta diventando sempre più scarsa: il tempo. Più precisamente (come propone Robert Goodin) tempo discrezionale «di qualità», da usare senza costrizioni se non quelle da noi liberamente scelte.