Lo specchio di Friedman
La storia dell’ascesa di Luigi Di Maio assomiglia a una favola. Per certi versi, mi ricorda The Truman Show. Nel 2013, quando quasi nove milioni di italiani votavano per i Cinque Stelle alle politiche, Di Maio era ancora un novellino sconosciuto, un ragazzo di Pomigliano d’Arco. Iscritto al movimento fin dal 2007, figlio di un importante dirigente locale del Msi di Rauti, conobbe Beppe Grillo nel 2010, in occasione di una visita elettorale dell’ex comico nella cittadina campana. In quello stesso anno, il ventitreenne Di Maio si candidò al consiglio comunale ma perse, ricevendo appena 59 voti. Poi, tre anni dopo, abracadabra, entra in Parlamento, viene eletto vicepresidente della Camera, diventa il dirigente più importante del suo partito, e oggi è candidato premier. Bravo. Una carriera supersonica. Con la morte di Gianroberto Casaleggio e il passo indietro di Grillo, Di Maio appare l’erede naturale, il Principe. Non è laureato e non ha molta esperienza, ma è arrivato in cima: si è preso il Movimento 5 Stelle in tandem con Davide Casaleggio. Tuttavia, per i suoi detrattori non è altro che il prodotto dei complicati algoritmi della piattaforma Rousseau. Nella campagna elettorale in corso, Di Maio incarna il grillino moderato, confortante, rassicurante. Si presenta bene, cerca di parlare bene. È un bravo ragazzo con il viso pulito. Il mio collega Jacopo Iacoboni, che di recente ha pubblicato un libro di inchiesta sul M5S, «L’Esperimento», definisce Di Maio «un politico quintessenzialmente democristiano», ma con alle spalle una rete sociale capillare e molto forte. Sono d’accordo. A differenza della vecchia Dc però, Di Maio fa un uso micidiale dei social media e della propaganda online. Iacoboni descrive il candidato premier pentastellato usando termini severi, definendolo «una totale creatura della Casaleggio e Associati» e sostenendo che sia stato scelto come in un «casting». «Di Maio – afferma Iacoboni – è stato creato per essere un moderato, rassicurante per le mamme». È vero, talvolta Di Maio sembra un bambolotto, un robot telecomandato. Ma credo che quest’uomo stia oramai sviluppando la propria identità come leader. Nelle ultime settimane ha chiaramente ammorbidito le posizioni del Movimento su diversi temi, cercando di guadagnare consensi nel campo dei moderati e senza curarsi delle rimostranze dei suoi compagni di partito più ortodossi. In ogni caso, il giudizio su di lui non può prescindere dalle sue proposte economiche, che nel loro complesso appaiono utopistiche, se non improbabili. Sul fronte delle tasse, vuole imitare Trump. L’ha dichiarato nell’autunno del 2017, in occasione del suo primo viaggio a Washington già in veste di candidato premier del Movimento 5 Stelle. Ha annunciato di ispirarsi alla politica fiscale del presidente americano, e ha proposto «una manovra choc per abbassare le imposte sulle imprese, attingendo anche a risorse in deficit». Interessante, di primo acchito. Peccato che il deficit andrebbe su, avremo problemi nei mercati finanziari, il deficit cumulato andrebbe a ingrossare il nostro debito pubblico e presto saremmo di nuovo punto e a capo, con maggiori interessi da pagare e molto meno credibilità sui mercati. L’altro pilastro su cui poggia il programma economico del Movimento 5 Stelle è il famoso reddito di cittadinanza. Di Maio ha certamente ragione quando afferma che «c’è una profonda disparità nel Paese», e condanna la presenza delle disuguaglianze sociali. Ma questo non significa che la soluzione risieda nel garantire a tutti una rendita mensile di 780 euro. Il costo annuo di questa proposta, stimato in circa 1520 miliardi, è quasi pari a un’intera manovra finanziaria, e andrebbe sostenuto per sempre. Piuttosto che garantire una rendita a tutti i cittadini, una misura che rappresenterebbe un disincentivo al lavoro, non sarebbe meglio usare le risorse per aiutare gli indigenti da un lato e ridurre il costo del lavoro dall’altro? È sacrosanto aumentare l’assistenza sociale per chi si trova al di sotto della soglia di povertà e non può lavorare. Ma il reddito di cittadinanza non è una soluzione efficace per curare la piaga della disoccupazione. È assistenzialismo. Bisogna mettere in campo incentivi fiscali che facilitino e accelerino le assunzioni, che creino nuovi posti di lavoro, e non elargire stipendi di Stato. Ma Luigi Di Maio non ha dubbi. È imperturbabile. Non si scompone. Come un personaggio uscito dal Truman Show, sorride perfettamente, si veste con cura, segue il suo copione, e ogni giorno mostra agli elettori la sua faccia rasata di fresco. Certo, ci sono degli intoppi, come la vicenda dei rimborsi o la presenza di qualche massone di troppo nelle liste. Ma in gran parte la strategia funziona. In un sondaggio Ipsos pubblicato qualche giorno fa su queste pagine, il M5S è risultato il partito più gradito agli italiani per la gestione dell’economia. E Di Maio, assieme a Silvio Berlusconi, il leader considerato più competente dalla maggioranza dei votanti. Confesso che per me Di Maio è ancora un rebus. Non so se il Presidente della Repubblica lo investirà dell’incarico esplorativo nel caso in cui il Movimento dovesse rivelarsi il partito più votato alle elezioni del 4 marzo. Non so se c’è davvero il rischio di un’alleanza tra i Cinque Stelle e Matteo Salvini. So soltanto che i conti nelle proposte economiche del leader pentastellato non tornano. Alla fine Di Maio, a capo del partito più populista del Paese, si sta rivelando meno rivoluzionario e più andreottiano. Un democristiano del ventunesimo secolo, un democristiano digitale.