Nell’ottobre del 2010, in un ennesimo tentativo di inserire nell’agenda della comunità internazionale la loro questione, piantarono 80 tende a Gdeim Izik, in mezzo al deserto a sud del Marocco, raccolsero oltre 20.000 persone e inaugurarono pacificamente la stagione delle grandi rivolte che, di lì a poco, avrebbero incendiato il Nord Africa e il Medio Oriente. Per Noam Chomsky furono proprio loro con quell’‘Accampamento della dignità’ a dare l’innesco all’era della primavere arabe.
Eppure per molti, i Saharawi non esistono.
La vicenda del Popolo del deserto, le antiche tribù nomadiche la cui presenza in quel lembo di terra stretto tra Marocco del Sud, Mauritania e Oceano Atlantico, affonda le sue radici nella notte dei tempi, è certamente paradossale. Per metà del mondo – l’Unione Africana e la quasi interezza dei Paesi africani, molti Paesi centro o sudamericani, vari asiatici – è parte di uno Stato a tutti gli effetti – la RASD (Repubblica Araba Saharawi Democratica) – e ha un governo e un Parlamento riconosciuti. Per l’altro emisfero, invece, compresi ONU, UE e Vaticano, non è considerato altro che l’estrema propaggine meridionale del Marocco.
Fino al 1975, questa regione ricchissima di fosfati e tra le più pescose del continente, era nota come Sahara Spagnolo. I gruppi politici indipendentisti già attivi dagli anni Sessanta, unitisi nel 1973 sotto la sigla di Frente Polisario (Frente popular para la liberación de Saguía el-Hamra y Río de Oro), approfittando del vacuum politico che proprio in quell’anno si andava delineando in Spagna per il declino della dittatura franchista e cavalcando l’onda di decolonizzazione planetaria, attesero la sua definitiva uscita di scena (gli ultimi soldati spagnoli lasciarono l’area all’inizio del 1976) per presentare alle Nazioni Unite le proprie istanze di autodeterminazione.
È il Marocco, però, il primo a sfruttare a proprio vantaggio l’indecisione geopolitica sulla regione. Il 6 novembre 1975, re Hasan II ordina a oltre 300.000 suoi sudditi, protetti da circa 20.000 soldati, di marciare verso sud e di varcare il confine per insediarsi nel Sahara Occidentale. La Marcia Verde ufficialmente ‘di liberazione dall’oppressore spagnolo’, sarà, in realtà, l’inizio di una nuova occupazione sempre più capillare.
A completare il quadro di quello che può essere considerato l’ultimo processo di colonizzazione in Africa – a opera di africani – ci pensa la Mauritania che reclama una fetta di territorio e sfonda da est con il suo esercito. Decine di migliaia di Saharawi sono costretti alla fuga. Da allora, quel popolo che sotto il dominio spagnolo viveva succube ma almeno unito, conosce l’esilio e il progressivo frazionamento: una grossa fetta vive in quell’area che per Rabat è l’ultima sua regione meridionale; al di là del muro più lungo al mondo – 2.700 km, eretto dal Marocco negli anni Ottanta e continuamente aggiornato e disseminato di mine – abita un’altra, esigua parte, in una striscia di terra conquistata dall’esercito del Polisario, lontana dall’oceano e assolutamente impervia, chiamata Territori Liberati; un ultimo pezzo, circa 200.000 persone, popola i campi profughi di Tindouf, Algeria, in pieno deserto dell’Hamada, con temperature che d’estate raggiungono i 60°.
Se la Mauritania, dopo aver raggiunto un accordo nel 1979, si ritira definitivamente dal Sahara Occidentale, il Marocco, al contrario, intensifica la propria presenza sia in termini demografici che militari. Inevitabile, nel 1976, scoppia un durissimo conflitto tra gli eserciti del Polisario, appoggiato dall’Algeria, suo storico alleato, e quello marocchino, che insanguinerà l’area per oltre 15 anni, fino a quando, cioè, si giungerà, su egida ONU, allo storico cessate il fuoco del 1991. L’accordo, oltre alla tregua, prevedeva l’immediata celebrazione di un referendum sull’autodeterminazione. Confortati dalle promesse e dalla contemporanea istituzione della MINURSO (Misión de las Naciones Unidas para el referéndum del Sáhara Occidental), migliaia di Saharawi della diaspora decidono di fare ritorno, certi che il voto sarà imminente.
Quella consultazione non si è mai fatta. E tra minacce di ritorno alla guerra, uscita del Marocco dall’UA (all’epoca ancora Oua, Organizzazione per l’Unità Africana) nel 1984 proprio a seguito del riconoscimento della RASD da parte dell’Unione (ma nel gennaio del 2017 vi è stato riammesso), uno stato di tensione permanente, si è giunti ai giorni nostri in una situazione di stallo totale che, inevitabilmente, favorisce i marocchini. In un’area, infatti, molto insicura e agitata come quella in cui insiste il Sahara Occidentale – da lì parte la striscia del Sahel, una zona in piena terra di nessuno dove agiscono da tempo gruppi jihadisti o cani sciolti che trafficano in armi, droga ed esseri umani – sembra non interessare nessuno un eventuale contenzioso con il Marocco che rappresenta uno degli esempi senza dubbio più evoluti di società di tutta quella regione. La zona che i Saharawi chiamano ‘occupata’, poi, dal ’75 in poi si è progressivamente marocchizzata e un esito del referendum, se mai si dovesse svolgere, sarebbe assolutamente incerto.
Se l’anno appena chiusosi ha confermato l’impasse e i malcontenti dei Saharawi – sono arrivate durissime condanne a 24 attivisti protagonisti dell’Accampamento della dignità, una strada realizzata dal Marocco in una zona cuscinetto tra il muro che separa i territori ‘liberati’ da quelli ‘occupati’, al confine con la Mauritania, ha portato i due eserciti a 100 metri di distanza (qualche settimana fa c’è stata una preoccupante ripresa delle tensioni) – quello nuovo, invece, si è aperto con un loro ritorno sulla scena politica internazionale e una vittoria politico-economica. Il 9 gennaio l’Alto rappresentante per gli Affari esteri e la Politica di sicurezza dell’Unione Europea Federica Mogherini, ha incontrato l’inviato personale del segretario generale delle Nazioni Unite per il Sahara Occidentale Horst Köhler a Bruxelles e ha espresso un forte interesse a far ripartire i colloqui per una «soluzione politica giusta, durevole e reciprocamente accettabile». Entro aprile 2018, i due rappresentanti, si sono posti l’obiettivo di avanzare una proposta concreta.
Nel frattempo, l’accordo di pesca della UE con il Marocco ha subìto un nuovo duro attacco. Dopo la sentenza della Corte di Giustizia del 21 dicembre 2016 – che dichiarava che le intese UE/Marocco non vanno applicate alla zona del Sahara Occidentale –, di recente un consulente legale dell’Unione – l’avvocato generale Melchior Wathelet – ha sostenuto che l’accordo dovrebbe essere invalidato perché irrispettoso del diritto all’autodeterminazione di un popolo e perché si riferisce a una zona tuttora contesa. Ha poi aggiunto che il «Sahara Occidentale dovrebbe essere pagato per il pesce esportato in UE».