Giorgio Mascitelli
Nei giorni scorsi il ministro dello sviluppo economico Carlo Calenda ha definito ‘trumpiana’ la proposta del leader di Liberi e Uguali Pietro Grasso di abolire le tasse universitarie. L’uso di questo aggettivo indica con ogni evidenza che il ministro ritiene che si tratti di una proposta tipica della destra populista dai caratteri fortemente demagogici, suggerendo implicitamente che un’università pubblica e gratuita non sia un obiettivo di sinistra.
Naturalmente le cose non stanno così: l’idea di un’università pubblica gratuita per tutti è tipica della tradizione socialista, sia nelle sue forme moderate socialdemocratiche sia in quelle comuniste sia in quelle antagoniste dei movimenti antisistema, mentre Trump, che, aldilà delle sua patina populista, è un’espressione magari un po’ inetta di quelle élite finanziarie, dalla idee delle quali il ministro Calenda non è poi troppo lontano, ha una posizione sulla questione delle tasse universitarie che può essere efficacemente riassunta dal vecchio slogan ‘pagherete caro, pagherete tutto’. Ovviamente ciascuno è libero di considerare migliore il sistema raccomandato dall’OCSE e dal neoliberismo di tasse universitarie elevate e di prestiti d’onore per gli studenti che li introduca nel mercato del lavoro già oberati di debiti rispetto a quello che considera anche l’istruzione superiore una funzione dello stato sociale, ma non è intellettualmente onesto fare questo gioco delle tre tavolette presentando posizioni tipiche della destra liberista come capisaldi della sinistra.
Si sa che tra i ferri del mestiere del politico vi è anche la capacità di fare dichiarazione volutamente confuse per raggiungere i propri fini, ma ritengo che qui il ministro Calenda piuttosto esprima ingenuamente una mentalità diffusa. Non è un caso che in forme più scaltrite l’argomento che questa proposta sia tipica di un populismo di destra è stato ripreso e declinato in toni diversi da molti commentatori vicini al partito democratico e al governo.
E’ un gioco alla confusione assai pericoloso questo, perché dichiarazioni che attribuiscono alla destra la difesa dello stato sociale e la giustizia sociale sono autentica benzina per la macchina propagandistica dei Salvini, dei Meloni e dei gruppi dell’estrema destra. E’ perfettamente inutile che esponenti del partito democratico e del governo denuncino i rischi di una rinascita fascista, quando sono i primi ad alimentarli tramite dichiarazioni, tra l’altro non veritiere, che attribuiscono alla destra estrema una difesa dello stato sociale per giustificare il fatto che essi hanno abbandonato il criterio della difesa dell’universalità dei diritti sociali.
Non è solo in questa circostanza, del resto, che si è assistito a un’operazione del genere, basti pensare all’ambiguo gioco linguistico sulla parole ‘riforme’, che serve da trent’anni in qua per definire provvedimenti che smantellano le tutele sociali spacciandoli come aggiornamenti di quelle riforme che nel corso del Novecento le avevano create. Non si tratta però di un semplice espediente retorico per aumentare la confusione e favorire la depoliticizzazione della cittadinanza e quindi l’accettazione passiva delle nuove misure, ma di una precisa strategia di comunicazione ideologica.
L’attribuzione di ogni istanza di giustizia sociale al populismo occupa un posto di rilievo nell’ambito di quel sistema ideologico che è il politicamente corretto. Infatti l’attribuzione al populismo di qualsiasi proposta che amplia o difende i diritti sociali serve ad accomunarli a pregiudizi sessisti o razziali, presentandoli come retaggio del passato che minacciano il progresso rappresentato dalla globalizzazione neoliberista. In questo modo si cerca di presentare la scena politica, o, se si preferisce, di mettere in scena lo spettacolo, come dominata da uno scontro tra un neoliberismo politicamente corretto che rispetta i diritti civili ed è internazionalista e un populismo, in realtà altrettanto neoliberista, nazionalista, razzista che combatte l’emancipazione delle donne e delle minoranze sessuali e che seduce il popolo con idee demagogiche del passato come i diritti sociali. Prova ne sia che il primo governo Tsipras, quello in cui c’era Varoufakis, fu definito all’inizio come potenzialmente pericoloso per i diritti degli omosessuali, anche se tale tentativo fu tralasciato visto che fu proprio quel governo ad approvare la legge sulle unioni civili tra persone dello stesso sesso.
Vale la pena di ricordare che il politicamente corretto non è cambiare il finale della Carmen di Bizet, quello è un epifenomeno, ma è il sistema ideologico con cui le èlite delle globalizzazione cercano di regolare in modo conveniente ai loro interessi le questioni etiche, politiche e culturali poste dalle dinamiche sociali odierne. Il politicamente corretto concretamente è una sorta di criterio logico, funzionale all’ammissione in un certo tipo di sfera sociale globale, che tende a dividere tra accettabili e impresentabili ogni posizione e valore, ma i due elenchi, le idee accettabili e quelle impresentabili, sono in costante aggiornamento. Se le cose stanno così, un compito primario è quello di svolgere una critica di sinistra, ossia in termini di classe, al politicamente corretto. Questo significa non solo svelare i rapporti di dominio che il politicamente corretto cela che coinvolgono ormai la maggioranza impoverita degli esclusi dai vantaggi della globalizzazione ( meno del 99%, ma sicuramente più del 50%), ma anche sottolineare che il politicamente corretto è esso stesso un meccanismo ideologico appunto per la sua natura di strumento inclusivo ed esclusivo. Inutile aggiungere che senza tale critica del politicamente corretto resta lettera morta quella degli inganni e delle mitologie ben più grossolani, ma ormai radicati del populismo.