Un «corvo» vaticano ha posato il suo uovo elettronico avvelenato pochi giorni dopo Natale: una lunga, dettagliata email inviata a diciassette dipendenti del Governatorato e a due indirizzi della diocesi di Roma, che vuole essere un atto di accusa contro il direttore dello Ior, Gianfranco Mammì. La forma, riferisce chi ha avuto modo di scorrere la lettera, sarebbe quella di una «confessione» nella quale il dirigente bancario si scuserebbe per una serie di episodi, alcuni pubblici e altri molto privati, avvenuti durante la sua carriera: molti dei quali riguardano proprio la sua attività presso l’Istituto per le Opere di religione. Da quanto ha potuto verificare il Corriere , che ha cercato di contattare Mammì senza ricevere risposta, il direttore dello Ior ha già informato le autorità vaticane. E sembra che abbia negato qualunque responsabilità: non solo nella redazione dell’email ma a proposito del suo contenuto.
Ma questo rende ancora più grave e inquietante l’episodio. Avviene ad appena un mese dal siluramento improvviso e misterioso di Giulio Mattietti, «vice» di Mammì, per «violazioni amministrative» che non sono mai state chiarite: una decisione avallata personalmente da Papa Francesco, che pure scelse Mammì e Mattietti nel 2015, superando alcune obiezioni all’interno del Vaticano. E espone il direttore dell’Istituto, che ha colloqui più o meno settimanali col pontefice, a voci destinate a riportare all’attenzione le riforme finanziarie incompiute, e il loro stesso futuro. Il fatto che non si sappia chi ha costruito l’email e da quale computer sia partita, allunga ombre sporche e antiche sugli avvenimenti degli ultimi mesi. E lascia un punto interrogativo non solo sulle vere ragioni del licenziamento di Mattietti, ma sulla gestione di Mammì. Chi ha mandato la lettera sa molto delle vicende interne allo Ior, spiegano in Vaticano.
I collaboratori di Francesco sostengono che si tratta di un’operazione tesa a screditare il suo papato; e a mostrarlo caotico e inquinato da veleni e faide interne come nell’ultima fase di quello di Benedetto XVI, che si dimise, esasperato, nel febbraio del 2013. Il problema è che la confusione è difficile da ignorare. In un anno, i vertici finanziari ai quali erano state affidate le riforme sono stati decapitati. Il 19 giugno del 2017 si dimise il supervisore generale Libero Milone, che era stato scelto personalmente da Jorge Mario Bergoglio due anni prima per fare pulizia nei conti vaticani; e tre mesi dopo Milone rivelò che le sue non erano state dimissioni consensuali, ma provocate da minacce di arresto. Nello stesso arco di tempo è stato costretto a gettare la spugna, ufficialmente in aspettativa, il cardinale australiano George Pell, «ministro dell’Economia» del Vaticano: è dovuto tornare nel suo Paese per difendersi in un processo per un caso di alcuni decenni fa di molestie sessuali.
E nello spazio dell’ultimo mese è saltato Mattietti e ora si muove un «corvo» per colpire Mammì, che col suo vice avrebbe avuto seri contrasti a causa di una gestione definita troppo «personalistica» dello Ior. Non solo. Nel discorso natalizio alla Curia il Papa non ha sferzato solo e tanto i mali dell’amministrazione della Santa Sede, ma soprattutto il «tradimento» di quanti erano stati scelti da lui per promuovere le riforme e non l’avrebbero fatto a dovere: una reprimenda che ha deliziato alcuni anziani cardinali di Curia ma seminato anche sconcerto. La domanda è se dietro questa filiera di incidenti esista una regia; o se sono solo sintomi sempre più ravvicinati di un malessere diffuso e senza sbocco.
Un’«eminenza» di lungo corso sostiene la tesi di un complotto ordito da alcuni oscuri poteri statunitensi contro «un Papa che insiste nelle sue critiche al modello di sviluppo capitalistico. Mi fu confidato da un esponente dei servizi segreti nella primavera scorsa, e mi pare che ora il cerchio si stia chiudendo». L’allusione è alle rivelazioni sui soldi guadagnati dal cardinale honduregno Oscar Rodrìguez Maradiaga, grande elettore di Bergoglio in Conclave; all’attacco recente di alcuni siti cattolici contro alcuni collaboratori papali; e ad altri che sarebbero in incubazione. Ma, per quanto suggestiva, l’ipotesi rischia di sottovalutare il rallentamento che le riforme vaticane hanno subito nell’ultimo anno e mezzo; e le perplessità diffuse sui metodi di governo che emergono a Casa Santa Marta e sulla cerchia dei consiglieri del pontefice argentino.
Chi conosce bene passato e presente dello Ior sostiene che l’Istituto sta tornando quasi per inerzia ai metodi del passato; che il vertice, nel quale Mammì ha, grazie all’appoggio papale, grande potere a spese del presidente Jean-Baptiste de Franssu, «sta perdendo la scommessa della riforma». E che il finale, ancora da scrivere, potrebbe certificare un fallimento.
Corriere della Sera – Massimo Franco – 10/01/2018 pg. 1 ed. Nazionale.