Le lacrime di Francesco “ Dio si chiama Rohingya”.

PAOLO RODARI,
Il Papa incontra i profughi musulmani costretti alla fuga dalla Birmania al Bangladesh. E per la prima volta pronuncia il nome della loro etnia.
Dacca
Ha ricevuto nei giorni scorsi diverse critiche per non avere pronunciato la parola Rohingya. Ma ieri, occhi negli occhi con sedici profughi della minoranza musulmana costretti alla fuga dallo Stato di Rakhine al Bangladesh, cede e a braccio, nel silenzio sospeso del cortile dell’arcivescovado di Dacca, dice davanti a tutti e quasi sottovoce: « La presenza di Dio oggi si chiama anche Rohingya ». Si tratta, a conti fatti, di Ostpolitik allo stato puro: dopo il pragmatismo seguito in Myanmar davanti ai generali dell’esercito, papa Francesco pronuncia in Bangladesh la parola tanto invisa nell’ex Birmania e fa valere il peso diplomatico riconquistato dalla Santa Sede affrancandosi come riconosciuta autorità morale internazionale. Al suo fianco, non a caso, un segretario di Stato, il cardinale Pietro Parolin, della vecchia scuola diplomatica pontificia di piazza Minerva. Francesco come Karol Wojtyla, insomma, che nell’ormai lontano 1986, nell’anno dell’incontro interreligioso di Assisi, arrivò proprio a Dacca a proporre la riconciliazione fra le religioni quando ancora il Bangladesh, nato sulle ceneri del Pakistan Orientale, era un Paese completamente militarizzato: la pace come forza che spegne i clamori della guerra, il peso della Santa Sede che lavora per portare le istanze degli ultimi e dei poveri alle orecchie dei potenti.
I sedici Rohingya, accompagnati a Dacca dalla Comunità di Sant’Egidio, sfilano uno dopo l’altro davanti al vescovo di Roma dopo aver atteso qualche ora nel refettorio dell’arcivescovado. Si fermano davanti al Papa e, con l’aiuto di un traduttore, gli raccontano i soprusi subìti, il desiderio vivo di tornare presto nelle proprie terre, depredate loro con la violenza, i figli bruciati vivi sugli alberi intorno ai villaggi, i parenti decapitati. E, insieme, fanno sapere al vescovo di Roma quanto sarebbe importante sentire pronunciare dalla sua voce il nome della loro etnia. Il Papa stringe le mani di ognuno, a lungo. Francesco si commuove davanti alla piccola Sahkwat Ara, orfana di dodici anni, che lo guarda impietrita, senza espressione, come avesse un immenso vuoto dentro. E così davanti a tutti gli altri. S’inchina innanzi al loro dolore. E quando decide di prendere la parola a braccio col microfono acceso si lascia andare fino a chiedere « perdono, perdono » , e lo fa « a nome di quelli che vi perseguitano e vi hanno fatto male e per l’indifferenza del mondo » . L’inchino di Francesco conferma il suo voler essere servo di tutti. S’inchinò il 13 marzo 2013 subito dopo l’elezione davanti alla folla riunita in piazza San Pietro. Lo stesso gesto ripetuto poi davanti al patriarca Bartolomeo, esattamente il 30 novembre di tre anni fa, ad al Fanar in Turchia.
Il Bangladesh è Paese più di altri propizio in cui dare l’abbrivio a processi di pace di lunga durata. Lo riconobbe, in modo deciso, anche il maggiore esperto di dialogo interreligioso e di Islam della Santa Sede, l’uomo di fiducia di Francesco ma anche di Benedetto XVI che ricevette il suo aiuto per risolvere il “ caso Ratisbona”: il cardinale Jean- Louis Tauran. Fu lui, nel 2010, in visita in questa terra a maggioranza musulmana a dire: «Il Bangladesh è il migliore esempio al mondo di convivenza pacifica fra religioni diverse». Lo ha ricordato ieri anche l’arcivescovo di Dacca Patrick D’Rozario, primo bengalese della storia a divenire, per volere di Bergoglio, cardinale. E fra i primi, dopo il terribile attentato del primo luglio 2016, a spingere per una dichiarazione di condanna dell’odio perpetrato in nome di Dio insieme ai «fratelli» musulmani.
Il legame con Giovanni Paolo II e lo spirito di Assisi è probabilmente voluto da Francesco e dai suoi collaboratori. E in questo senso la scelta di papa Bergoglio di arrivare nel giardino dell’arcivescovado con il tradizionale risciò a pedali, come fece Wojtyla nell’ 86, accompagnato da un giovane bengalese visibilmente emozionato, è un simbolo che vuole dire molto. Sono passati trentuno anni dalla visita del Papa polacco: la volontà di mischiarsi con le tradizioni del posto è oggi quella di allora, così la spinta per una diplomazia, quella pontificia, che ha come solo faro la ricerca della pace.
Papa Francesco ha incontrato sedici Rohingya nell’arcivescovado di Dacca.
Fonte: La Repubblica, www.repubblica.it/